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Filosofie e religioni asiatiche

Le filosofie e le religioni dell’antica Asia (cioè vedica, brahmanica e induista in India; buddhistica, confuciana e taoistica in Cina) possono essere considerate l’equivalente dello stoicismo e dell’epicureismo dell’epoca ellenistica e romano-imperiale. Infatti sono tutte correnti di pensiero particolarmente rinunciatarie, più individualistiche alcune, più statalistiche altre (quelle cinesi p.es. appaiono meno legate a esigenze di casta).

Tutte sembrano fatte apposta per convivere con regimi oppressivi (schiavistici), in cui la libertà di espressione e di movimento è ridotta al minimo. Il credente (o il filosofo) deve trovare in se stesso una qualche consolazione agli antagonismi che rendono la vita sociale molto difficile. D’altra parte nessuna religione asiatica è mai stata usata per modificare la realtà, ma solo per conservarla.

Quando è molto faticoso trovare in se stessi la necessaria consolazione, poiché ciò implica particolari rinunce, forme ascetiche di vita ecc., si può sempre pensare di trovarla in una certa identificazione coi destini dello Stato cui si appartiene (è il caso del confucianesimo, per il quale il vero filosofo è il funzionario statale, che vive secondo una morale che noi definiremmo “kantiana”: il dovere per il dovere). Oppure si può sperare in una certa benevolenza da parte dei propri antenati defunti, che fanno da mediatori tra il cielo e la terra (anche questo è un atteggiamento che si ritrova nel confucianesimo, il quale tuttavia, come le altre filosofie cinesi, non parla mai di “dio”).

Il taoismo è invece una filosofia più astratta, in quanto pone la consolazione in una certa identificazione metafisica tra io e universo (tao vuol dire “eterno ordine del cosmo”). Notevole, di questa filosofia, è la convinzione che all’origine di tutto vi sia un’essenza sdoppiata in maschile e femminile, in cui gli opposti si attraggono e si respingono eternamente. In Cina veniva tollerato perché si pensava che le sue pratiche magiche (astrologia, geomanzia, ecc.) potessero servire per tenere la società sotto controllo, per quanto esso non nutrisse particolare interesse per la vita pubblica.

Quanto alla religione o filosofia vedica bisogna considerare che è la più antica, dopo quella totemico-animistica, per cui l’idea di una incessante riproduzione dell’essenza umana (in forme sempre varie, a seconda della colpa che si è commessa) inevitabilmente ha influenzato tutte le filosofie e religioni successive. La si ritrova anche nel buddhismo, per il quale il problema principale è proprio quello di come uscire da questo vortice senza fine, che porta a una certa esasperazione sulla terra.

Il raggiungimento del nirvana, cioè di tutto ciò che non è (poiché il non-essere cosmico è superiore all’essere terreno), è l’obiettivo principale del buddhismo, che non andava molto d’accordo col confucianesimo, in quanto sosteneva che la salvezza era una questione individuale, da viversi come monaci privi di un vero lavoro e, tutto sommato, abbastanza indifferenti alla pietà filiale e agli interessi dello Stato.

Generalmente le religioni e filosofie indo-buddhiste si pongono come unico problema quello di come uscire dal mondo o di come adeguarsi alle sue contraddizioni antagonistiche in modo da soffrire il meno possibile. Queste non sono filosofie in cui l’individuo lotta contro il sistema. Nel mondo induista, addirittura, è vietato farlo, in quanto ognuno deve riferirsi a una determinata casta, soprattutto quando sono in gioco i matrimoni e l’alimentazione: si è induisti in quanto si è nati da genitori indù (esattamente come si è ebrei in relazione al sangue della madre). Non ci si può mettere in contatto con induisti di caste diverse dalla propria, anche perché l’induismo ritiene del tutto inutile, ai fini della salvezza religiosa, il passaggio da una casta all’altra: tutti hanno il dovere di purificarsi, se vogliono evitare di reincarnarsi. Si badi che il sistema castale, pur essendo stato ufficialmente abolito nel 1950, continua a esercitare ancora oggi in India un’influenza notevole per la suddivisione dei lavori, gli equilibri di potere e il passaggio dei beni. La casta è uno status sociale che determina un certo stile di vita, dove il valore dell’onore gioca un ruolo fondamentale.

La terra è considerata un inferno, e tutte le religioni e filosofie asiatiche danno per scontato che non vi sia alcuna possibilità di modificare il sistema. Soltanto l’individuo può cercare di migliorare se stesso. È un compito puramente soggettivo. Un compito che si può adempiere nel miglior modo evitando di “desiderare” ciò che non è alla propria portata. Ognuno deve accontentarsi di quel che è e di quel che ha e di quel che prevede lo Stato e la società (o la casta) per lui. Qualunque aspirazione in più provoca disordine, frustrazione, odio, risentimento…, proprio perché un desiderio insoddisfatto nuoce alla salute, fisica e psichica.

Questo modo di ragionare lo ritroviamo nei momenti più drammatici del tardo impero romano, quando Diocleziano voleva che tutti rimanessero “incatenati” alle occupazioni lavorative ereditate dai propri avi; ma lo si ritrova anche nel Medioevo agricolo, quando si diceva che la società era rigidamente divisa in nobili, clero (entrambi padroni di immense proprietà terriere) e servi della gleba.

D’altra parte anche san Paolo nelle sue lettere diceva che “ognuno deve rimanere nella condizione in cui è stato chiamato”, e non si riferiva soltanto alla condizione verginale o matrimoniale, ma anche a quella sociale (cfr 1 Cor 7,21), tant’è che rimanda a Filemone lo schiavo fuggitivo Onesimo, nella speranza che anche il padrone diventi cristiano come il suo schiavo.

Una differenza però c’è. Quando il cristianesimo penetra in Europa occidentale possiede degli elementi ebraici che lo rendono abbastanza esigente, autorevole, con aspetti di caparbietà e risolutezza che intimoriscono le autorità costituite. Il cristianesimo si pone da subito come una sorta di “contropotere”, disposto sì a collaborare coi sovrani di turno per affermare l’ordine pubblico, ma intenzionato anche a difendere la propria autonomia e a non barattarla mai per difendere gli interessi dello Stato.

Nessuna filosofia o religione asiatica ha mai avuto pretese di “contropotere”. In Cina sono sempre stati abituati a considerare l’imperatore una sorta di capo religioso, per cui non avrebbe mai potuto esserci un potere ecclesiastico alternativo e neppure complementare (una ierocrazia). I burocrati erano sì una classe privilegiata, ma erano anche tenuti costantemente sotto controllo da parte dell’imperatore, nonostante che il loro confucianesimo sia stato la dottrina ufficiale delle istituzioni almeno sino alla fine dell’impero (1912).

Il desiderio di farsi valere in opposizione ai poteri costituiti è diventato molto forte anzitutto nell’area occidentale dell’Europa. Qui infatti si è sviluppato un vero e proprio “Stato della chiesa latina”, che non tollerava d’essere politicamente controllato dallo Stato civile del re o dell’imperatore. Anche in Europa orientale la chiesa ortodossa, pur limitandosi a concepirsi come “Chiesa di stato”, non ha mai tollerato che gli imperatori potessero modificare i dogmi conciliari, le sentenze ecclesiastiche in materia di fede religiosa.

Quale filosofia o religione asiatica ha mai avuto il coraggio di assumere comportamenti così radicali? Se tutto l’universo presenta leggi universali e necessarie, per quale motivo non dev’essere così anche sulla terra? Ecco qual era la loro concezione di vita, e per molti credenti odierni lo è ancora. Per queste filosofie non esisteva un male assoluto conseguente a una colpa originaria. Gli “spiriti cosmici” vogliono il bene dell’umanità, si diceva. Con tale forzata ingenuità non solo si negava la drammaticità dello schiavismo, ma si faceva anche della storia una semplice propaggine della natura. Gli uomini andavano soltanto educati ad accettare le cose così come sono. Tant’è che non c’è mai stata una vera preoccupazione per l’aldilà. Pur di affermare il senso della tradizione non si mettevano mai in discussione le credenze popolari e si evitava di formulare dei dogmi metafisici.

Ciò spiega il motivo per cui l’Asia è rimasta molto indietro quando l’Europa occidentale ha iniziato a intraprendere il cammino verso la formazione di una società borghese di tipo capitalistico. Una cosa infatti è fare commerci sotto il controllo delle istituzioni statali, un’altra è pretendere che tali istituzioni si mettano al servizio dei commerci (come chiedevano espressamente i puritani calvinisti). Per i confuciani una proprietà eccessiva faceva diminuire inevitabilmente l’etica, e senza etica è impossibile disciplinare i rapporti sociali, conservare il passato, accettare obblighi personali verso il padre, il padrone, il coniuge, il fratello maggiore e l’amico.

Un qualunque confuciano avrebbe biasimato la nota formula cartesiana Cogito, ergo sum. Sarebbe stato infatti inconcepibile per lui autodefinirsi senza fare esplicito riferimento alla propria famiglia e quindi al proprio villaggio. La famiglia confuciana si sentiva profondamente responsabile persino per i debiti o i reati compiuti da un qualunque proprio componente, a prescindere da quanto fossero vicini o lontani i legami di parentela. Non a caso doveva assolvere molti compiti assistenziali nei confronti di malati, anziani, vedove, studenti, ecc.

Se si considera che le prima fondamenta della società borghese sono state poste in Italia mille anni fa, possiamo dire che il mondo asiatico ci ha messo un millennio prima di allinearsi a questo trend. Il primo paese che ha iniziato a farlo è stato il Giappone, nella seconda metà dell’Ottocento, la cui filosofia shintoista, non a caso, presenta analogie significative col calvinismo, e dove la vecchia classe feudale si mise a capo di moderni monopoli industriali, saltando quelle fasi o tappe che invece in Europa erano state fondamentali. Agli inizi del Novecento una piccola isola come il Giappone era già in grado di vincere molto facilmente una guerra contro il colosso russo per il controllo della Manciuria.

Il crollo delle concezioni etiche tradizionali è avvenuto in Asia nella seconda metà dell’Ottocento, in pieno sviluppo imperialistico-europeo, quando già da un secolo inglesi e francesi erano penetrati in questo immenso continente, e prima di loro olandesi e portoghesi. La guerra dell’oppio è stata devastante in Cina, al punto che i burocrati e gli imperatori potevano controllare il loro paese solo grazie all’appoggio occidentale. Furono poi le continue rivolte a demolire l’impero e a imporre la repubblica democratica, che però resterà in Cina filo-occidentale sino alla svolta maoista del 1949.

Oggi l’Asia è destinata a soppiantare la cultura occidentale, espressa dall’Europa e soprattutto dagli Stati Uniti, in quanto è in grado di unire alla intraprendenza dell’individuo borghese il senso collettivo dello Stato.