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Il caso della First Republic Bank

Mario Lettieri* e Paolo Raimondi**
La First Republic Bank di San Francisco (Frb), la quattordicesima banca americana, ha chiuso i battenti. E’ il secondo fallimento più grande della storia dopo quello della Washington Mutual nel 2008. Per evitare che potesse provocare una slavina finanziaria e per tranquillizzare, almeno momentaneamente, i mercati è stata organizzata una “special operation” pubblica – privata.
La Federal Deposit Insurance Corporation (Fdic), l’agenzia di regolamentazione bancaria, in qualità di curatore fallimentare ha preso possesso della banca e contemporaneamente l’ha venduta alla JPMorgan Chase di New York, la più grande banca americana e indiscussa regina dei derivati finanziari speculativi. Quest’ultima prenderà il controllo dei 103,9 miliardi di dollari di depositi e dei 229,1 miliardi di attività della First Republic, 173 dei quali in prestiti e 30 in titoli.
Per l’acquisto la JPMorgan ha pagato 10,6 miliardi. Il fondo di garanzia della Fdic dovrebbe intervenire con 13 miliardi per coprire le perdite subite dai correntisti della banca. La Fdic, infatti, garantisce i depositi fino a 250.000 dollari. Essa dovrebbe anche aggiungere 50 miliardi di finanziamenti, di crediti. In altre parole, il grosso del salvataggio è sulle spalle pubbliche.
Si tenga presente che nei depositi citati vi sarebbero 92 miliardi di precedenti aiuti, 30 dei quali nella forma di crediti concessi dalle 11 maggiori banche statunitensi e il resto dalla Federal Reserve e da altre entità pubbliche. Sono serviti solo per guadagnare un po’ di tempo ed evitare il tracollo immediato.
Il crollo della Frb è da manuale. All’inizio di marzo, quando si annunciava il percorso di fallimento della Silicon Valley Bank, le azioni della First Republic valevano ancora 115 miliardi. Oggi pressoché niente. Già nei primi tre mesi dell’anno, ben 102 miliardi di depositi erano “scappati” dalla banca. Infatti, come le altre due banche fallite, la Silicon Valley e la Signature, la Frb è crollata sotto il peso di prestiti e investimenti in obbligazioni che hanno perso miliardi di dollari di valore a seguito della politica della Fed di alzare i tassi d’interesse per combattere l’inflazione. Di conseguenza, molti clienti, soprattutto quelli facoltosi, hanno iniziato a ritirare i loro soldi e gli investitori hanno scaricato le sue azioni, innescando anche una crisi di liquidità.

L’amministratore delegato della JPMorgan, Jamie Dillon, si augura che questa fase di alta instabilità finanziaria si possa calmare, anche se “potrebbe esserci un altro caso più piccolo”. Ma, aggiunge, gli investitori sono ancora esposti ai rischi creati dagli aumenti dei tassi d’interesse della Fed e dal loro impatto sugli asset, compresi gli immobili.

Nonostante le tante assicurazioni, si teme che le crisi bancarie da “acute” possano diventare “croniche”. Gli effetti macroeconomici dello stress bancario potrebbero essere solo nella fase iniziale.
Negli Usa vi è la convinzione che la Fed ha gestito male la politica sui tassi d’interesse, con rialzi prima tardivi e poi troppo concentrati. Infatti, in dodici messi il tasso è aumentato del 5%, uno choc secondo solo a quello degli anni ottanta. Inoltre, come ha ammesso anche il vice presidente della banca centrale Michael Barr davanti al Congresso, la Fed è mancata nella supervisione e nella regolamentazione bancaria.
I fallimenti hanno dimostrato che circa un quarto del cosiddetto portfolio bancario è fatto di titoli in perdita rispetto agli attuali tassi di’interesse. Di fatto, il rischio di una fuga generalizzata di depositi dalle banche regionali verso quelle più grandi e verso i fondi del cosiddetto sistema bancario ombra resta rilevante. Ciò comporterebbe anche una riduzione dei crediti verso l’economia. Si toccano con mano gli effetti indesiderati della liquidità creata a piene mani e a basso costo. Oggi la Fed rischia di fare lo stesso errore: sottovalutare le conseguenze sistemiche delle sue attuali politiche.
Naturalmente le banche too big to fail stanno approfittando della politica della Fed. Lo dimostra un dato sorprendente: nel primo trimestre del 2023 la JPMorgan Chase ha fatto ben 21 miliardi di profitti sui tassi di interesse, più del 50% rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente. Poiché i tassi sui depositi dei clienti erano e restano bassi, la banca si è subito adeguata al rialzo dei tassi nelle concessioni di prestiti e negli investimenti.
I non pochi interventi di salvataggio evidenziano alcune criticità che si faranno presto sentire. Prima di tutto acuiscono la concentrazione bancaria, le grandi banche diventano più grandi e too big to manage. In secondo luogo si sta minando la fiducia nei confronti della Fdic e della sua capacità futura di essere garante di tutti i depositi. Il che è molto preoccupante.

*già sottosegretario all’Economia **economista

IL PARTITO DI GRILLO RECLAMA IL REFERENDUM PER FARCI USCIRE DALL’EURO E TRUMP METTE UNA FAINA NEL POLLAIO DEI SOLDI PUBBLICI USA

 Il deputato grillino Alessandro Di Battista nel presentare il programma di governo del suo partito ha ribadito e specificato: “Vogliamo il referendum sull’euro”. Chiara quindi la volontà del Movimento 5 Stelle di farci uscire dall’euro, come del resto vuole anche la Lega Nord, con le inevitabili conseguenze più probabilmente catastrofiche che paradisiache.  A certi giovani cialtroni non basta neppure la lezione della Brexit e non sanno nulla dell’assalto di George Soros che mise in ginocchio la lira: pur di far carriera politica sono prontissimi a farsi servi dei Dracula e becchini dei risparmi degli italiani.

pino nicotri 

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Un uomo della Goldman Sach al Tesoro americano

di Mario Lettieri* e Paolo Raimondi**

La nomina di Steven Mnuchin a segretario del Tesoro della nuova amministrazione Trump non è certamente un segnale positivo. Noi l’abbiamo paventata in un articolo scritto  settimane fa. Mnuchin è un rampollo della Goldman Sachs, la banca numero uno della grande speculazione. Anzi, si potrebbe dire che vi è ‘nato dentro: il padre Robert ne è stato partner per ben 30 anni; Steven vi ha lavorato per 17 anni, fino al 2002, arrivando a gestire il delicato settore dei titoli di stato, delle obbligazioni e delle ipoteche immobiliari. In questo periodo Mnuchin ha collaborato anche con il Fund Management di George Soros, il megaspeculatore tristemente noto in Italia per i suoi “assalti” contro la lira nel 1992-3, che misero in ginocchio la nostra moneta.

Nel 2004, dopo l’esperienza alla GS, il futuro segretario del Tesoro si mise in proprio creando un suo hedge fund speculativo, il Dune Capital Management, uno di quelli che sono stati spesso chiamati “fondi avvoltoio”. Ha partecipato ai progetti di investimento immobiliare di Trump e investito anche in Hollywood e nella produzione di alcuni film di cassetta. Sono stati gli anni della deregulation e della grande abbuffata speculativa che hanno creato la bolla finanziaria e quella dei mutui subprime scoppiate nel 2008 con il fallimento della Lehman Brothers.

Per meglio capire le idee e il modus operandi di Mnuchin, è importante analizzare la sua decisione di comprare, nel 2009, la banca di credito immobiliare IndyMac dopo il suo fallimento. Perché si compra una banca fallita? Per fare soldi con simili investimenti occorre essere molto furbi e senza scrupoli. La sua furbizia fu nella clausola imposta all’agenzia statale venditrice, la Federal Deposit Insurance Corporation (FDIC), di “condivisione delle perdite”, qualora eventuali mutui e titoli acquisiti fossero diventati inesigibili. Nel contempo con aggressiva determinazione parecchie migliaia di famiglie, incapaci di pagare i mutui accesi, furono messe alla porta e le loro case acquisite dalla banca, che nel frattempo aveva cambiato nome in OneWest Bank. Per Mnuchin è stato un grande affare: la FDIC nel frattempo versa 1 miliardo di dollari per la parte dei crediti inesigibili e la vendita successiva della OneWest nel 2015 frutta 3,4 miliardi di dollari, il doppio del prezzo d’acquisto.

Evidentemente gli insegnamenti acquisiti alla Goldman Sachs sono stati molto utili e fruttuosi per il futuro segretario al Tesoro. Perciò è opportuno ricordare che, in rapporto alla crisi finanziaria americana e globale, la GS è stata oggetto di approfondite indagini da parte di due commissioni bipartisan, una del Senato americano e l’altra indipendente, ma formata da esperti nominati dal Partito Democratico e da quello Repubblicano. La Commissione del Senato, denunciando l’operato delle grandi banche americane, in primis la GS, ha scritto: ”E’ stata una distruzione fino alle fondamenta del sistema finanziario”. Persino Trump durante la campagna elettorale ha denunciato i dirigenti della GS come la personificazione dell’elite globale che “ha derubato gli operai americani”.

Mnuchin sarebbe il terzo segretario al Tesoro che si è fatto le ossa alla Goldman Sachs. Prima di lui vi sono stati Henry Paulson con il presidente George W. Bush e Robert Rubin con il presidente Clinton. Il primo divenne famoso per avere permesso alle banche di speculare fino al crack per poi salvarle con i soldi pubblici, il secondo preparò l’abrogazione della legge Glass-Steagal di separazione bancaria.

Cosa ci si può quindi aspettare dal nuovo segretario al Tesoro, se verrà confermato all’inizio del 2017 da un Congresso a maggioranza Repubblicana?

In primo luogo che possa ridare mano libera alle grandi banche per operare “as usual”. Si ricordi che i tentativi del presidente Obama di realizzare la riforma della grande finanza sono stati contenuti e alla fine quasi sconfitti dalla potente lobby bancaria americana. Le banche ‘too big to fail’ ora sicuramente si sentono pronte per la spallata definitiva a ogni tipo controllo sul loro operato e ad ogni tentativo di frenare le loro azioni, anche quelle speculative ad alto rischio. Ci si potrebbe chiedere se l’approccio prettamente finanziario possa entrare in collisione con il Trump imprenditore che dice di voler rilanciare gli investimenti, anche nelle infrastrutture. Non sarebbe salutare per la comunità americana, e nemmeno per il resto del mondo, se si raggiungesse un compromesso per far gestire gli investimenti alle grandi banche.

*già sottosegretario all’Economia **economista