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Diritto, etica e libertà di coscienza

Che significa che la libertà di coscienza è un concetto universale? Significa ch’essa è un valore dell’universo e non solo del nostro pianeta. Cioè anche quando la Terra avrà cessato d’esistere e la vita sarà solo cosmica, la libertà di coscienza continuerà a sussistere, impedendo che la verità delle cose s’imponga da sé.

Nessuno potrà essere obbligato a fare alcunché contro la propria volontà. Relativamente a questo principio, la differenza tra la Terra e il cosmo consisterà unicamente nel fatto che nel cosmo esso potrà essere effettivamente garantito.

Il problema è che non riusciremo a garantirlo se prima non riusciremo a farlo su questa Terra. Purtroppo gli uomini hanno imboccato una strada, da circa 6000 anni, che impedisce loro di sapere come garantire adeguatamente il rispetto di tale principio. Diciamo che per molto tempo l’hanno saputo e che poi si sono sforzati, purtroppo inutilmente, fino ad oggi, di ritrovare il bene più prezioso che hanno perduto.

Abbiamo tuttavia ancora molto tempo davanti a noi. Sappiamo che il Sole durerà ancora 5 miliardi di anni. In questi ultimi 6000 anni abbiamo sperimentato vari esempi di violazione della libertà di coscienza: lo schiavismo, il servaggio, il capitalismo e il socialismo di stato. Oggi in Cina stiamo assistendo a un nuovo esempio: il socialismo autoritario sul piano politico, unito al capitalismo sul piano economico. Questa forma di socialismo di mercato vuole essere un’alternativa sia al cosiddetto “socialismo reale” che all’attuale capitalismo monopolistico (privato e statale), presente in molte aree geografiche del pianeta.

Sono tutte forme in cui la libertà di coscienza non viene rispettata, e come nel passato ci si è opposti allo schiavismo, al servaggio, al lavoro salariato e alla proprietà statale, così è da presumere che ci si opporrà alla falsa libertà propagandata in quei paesi che vogliono imitare l’Occidente nella convinzione di non doverne subire i medesimi traumi.

È bene tuttavia chiarirsi su un punto: la libertà di coscienza non è cosa che possa essere imposta. Essa è soltanto un diritto che si può rivendicare, e là dove la si rivendica, occorre tutelarla. Non esiste un’esperienza che possa rendere obbligatoria tale libertà, poiché ciò sarebbe un controsenso. Non ci può essere niente e nessuno che impedisca a tale libertà d’essere violata, poiché, se ci fosse, la violerebbe ipso facto. La libertà di coscienza può essere solo tutelata là dove qualcuno afferma che è stata violata; quindi si tratta sempre di una tutela post factum.

Se su questa Terra non riusciamo a capire questo principio e a garantirlo praticamente, non avrà alcun senso la nostra presenza nell’universo, poiché è proprio questo principio che caratterizza meglio la nostra umanità, differenziandoci in maniera decisiva da qualunque altra cosa. Tutto il resto viene dopo e va considerato di secondaria importanza.

Noi dobbiamo porre le condizioni affinché una qualunque violazione della libertà di coscienza trovi qualcuno disposto a farsene carico. Questo ovviamente non può significare che uno, in coscienza, non possa accettare cose che nuocciono alla sua persona. Semplicemente significa che, nel caso in cui uno si penta d’aver fatto una scelta sbagliata, deve sempre avere la possibilità di rimediarvi. Nessuno può essere costretto a pagare in maniera irreparabile il prezzo delle proprie colpe, meno che mai di fronte a una ammissione personale di colpevolezza, in quanto nessuno, a priori, può mai dirsi migliore di un altro. Il buon senso dice che tutti possono sbagliare e che errare è umano. Ovviamente la possibilità del ravvedimento, per diventare un’esperienza reale, va verificata concretamente, sottoponendo l’interessato a varie forme di recupero.

L’unica pena possibile, per una scelta sbagliata, può essere soltanto l’emarginazione, che serve, più che altro, a tutelare sia il colpevole, dai possibili risentimenti altrui, sia le persone innocenti, dai rischi di subire ulteriori violazioni o di cadere nei medesimi errori del colpevole. A Caino fu messo un segno visibile di riconoscimento per evitare il linciaggio.

Emarginazione non vuol dire reclusione ma rieducazione. Cioè chi sbaglia deve essere messo in grado di non-nuocere, cioè di non peggiorare le cose, ma, nel contempo, gli si deve offrire (non una volta ma continuamente) la possibilità di un reinserimento, all’ovvia condizione di rispettare l’altrui libertà.

Non-nuocere vuol semplicemente dire che al colpevole non gli si possono affidare compiti di alta responsabilità, tali per cui possa facilmente e gravemente violare la libertà altrui. Chi vuol nuocere va isolato e nel contempo rieducato al senso della democrazia collettiva. Quindi l’isolamento non può essere qualcosa che lo opprime più di quanto possa fare la sua stessa coscienza: deve soltanto indurlo a capire che non si tratta di una punizione imposta dall’esterno, bensì di una sorta di autopunizione, che può anche terminare di fronte all’autocritica e alla riparazione morale e/o materiale del danno. Compiti di crescente responsabilità, partendo da una forma minima, possono essere assegnati immediatamente, tenendoli costantemente monitorati nelle modalità d’esecuzione e nei risultati ottenuti.

Ciò che più danneggia l’uomo, che è un essere sociale per definizione, è l’emarginazione, ma ciò che più lo ferisce e gli impedisce di ravvedersi è l’emarginazione imposta da una forza esterna, contro cui ha l’impressione di non poter far nulla. L’uomo ha bisogno di sapere che l’autoemarginazione cui è andato incontro per sua colpa, può essere rimediata in qualunque momento con un sincero pentimento. Naturalmente nessuno potrà mai sapere con sicurezza se tale pentimento sarà stato veramente sincero. La verità sta soltanto nei fatti. Gli uomini, siano essi colpevoli o innocenti, pentiti o irriducibili, bisogna metterli alla prova, e non una ma cento volte.

Imputato e colpa

Quando nei processi si giudica qualcuno e ci si attiene esclusivamente alla legge si ha più possibilità di sbagliare che non attenendosi esclusivamente all’etica. Applicare la legge ai casi umani, che sono sempre infinitamente complessi, anche quando appaiono semplici, non ha molto senso. Anche se i giudici avessero in mano migliaia di codici e migliaia di riferimenti a casi analoghi a quello che devono giudicare, non sarebbero per questo più agevolati. La realtà è che gli esseri umani non possono essere “giudicati” da altri esseri umani. Possono solo essere capiti.

Di fronte a qualcuno accusato di qualcosa, noi non dovremmo mai né giustificare né condannare, proprio perché non possiamo farlo. E i motivi sono tanti: p. es. perché conosciamo troppo o troppo poco l’imputato. In un caso possiamo avere dei conflitti di interesse; nell’altro rischiamo di fidarci troppo delle apparenze, delle impressioni, delle opinioni o testimonianze altrui. Per non parlare del fatto che ci portiamo sempre dietro i nostri pregiudizi, le nostre concezioni di vita.

Noi non siamo mai nelle condizioni migliori per poter giudicare in maniera adeguata qualcuno: o siamo troppo coinvolti nelle sue vicende (e allora è come se, in realtà, dovessimo giudicare noi stessi, e nessuno è così obiettivo da poterlo fare), oppure il caso ci appare troppo estraneo (e allora il nostro giudizio può essere condizionato da altri fattori: p. es. la fretta di concludere il processo o il timore di subire conseguenze a seconda di come ci si pone nei confronti dell’accusato).

L’idea che esistano delle “prove schiaccianti” non aiuta assolutamente a definire la colpevolezza di un imputato. Per poter capire davvero un reato non abbiamo bisogno né di prove né di testimonianze. Il fatto che un crimine venga individuato con certezza non significa, di per sé, che si sia anche in grado di capirlo adeguatamente. Si pensi solo al fatto che chi subisce un torto è generalmente convinto, solo per questo, di avere tutte le ragioni di questo mondo. E qui non stiamo neppure a discutere se davvero possa esistere il concetto di “prova inconfutabile”: se esistesse un concetto del genere, non si darebbe così tanto peso al concetto di “alibi”, né si cercherebbe di produrre falsi indizi o di deviare le indagini o di cercare false testimonianze o di manipolare i reperti.

Uno può pensare che tutto ciò viene fatto proprio perché esistono “prove inconfutabili”, ma chi è disonesto sa bene che tutto può essere “falsificato” e che operazioni del genere possono dare anche i loro frutti nei processi. Quanto alle testimonianze oculari, da tempo è noto che uno vede solo ciò che vuol vedere o che “pensa” di aver visto. L’evidenza della verità è solo un’illusione. E quando si fa giurare qualcuno di dirla, si è soltanto ridicoli. Uno la verità non potrebbe dirla neanche se lo volesse, proprio perché con certezza non può saperla.

Neppure un’esplicita ammissione di colpa potrebbe risultare sufficiente. Non serve a nulla, sul piano etico, pentirsi per avere uno sconto della pena, tanto più che non è detto che un imputato possa avere piena consapevolezza di ciò che ha fatto solo perché l’ha fatto. Probabilmente se uno potesse avere una consapevolezza del genere, non farebbe alcun crimine (almeno così la pensava Socrate, il più grande filosofo dell’antichità).

I giudici, la giuria, gli avvocati, la pubblica accusa, i parenti dell’imputato, quelli della vittima, le forze dell’ordine che assistono al processo, ma anche i giornalisti, il pubblico curioso o interessato…, insomma tutta la società ha bisogno di sapere le motivazioni di fondo che hanno indotto a compiere un determinato reato o crimine. Cioè le circostanze che le hanno generate e le eventuali attenuanti o aggravanti, correlate al fatto, che si possono far valere: non a titolo di mera curiosità, ma nella speranza che la cosa non si ripeta.

Le circostanze sono sempre quelle socio-ambientali, in cui può maturare un reato o un crimine. Chiunque infatti è in grado di notare che, a parità di circostanze, uno delinque, l’altro no. Per quale motivo? Uno dovrebbe essere giudicato dai suoi pari, cioè da quelli che, pur vivendo medesime circostanze, han deciso di comportarsi diversamente. Nei processi dovrebbero essere presenti solo le persone che, in un modo o nell’altro, conoscevano l’imputato e potevano accedere, in un modo o nell’altro, ai suoi ambienti. E tutti dovrebbero essere interpellati, per poter avere un quadro sufficientemente chiaro della personalità e della vita dell’accusato.

Il processo dovrebbe soltanto avere lo scopo di far capire all’accusato fino a che punto avrebbe potuto comportarsi diversamente, sulla base delle testimonianze raccolte. Le quali appunto non dovrebbero essere utilizzate a suo carico, ma proprio per fargli capire che esiste sempre la possibilità di agire diversamente. Dovrebbero essere testimonianze aventi una finalità pedagogica. Occorre cioè far capire a tutti, e non solo all’imputato, il valore delle opzioni, delle possibilità di scelta. Infatti, nella stragrande maggioranza dei casi, chi compie un reato o un crimine sostiene che non aveva scelta. Ma se davvero mancasse la libertà di decidere, dove starebbe la colpa? A che pro giudicare uno destinato a delinquere? Dovrebbe anzi essere la società a chiedersi il motivo per cui, in certe situazioni, non esiste possibilità di scelta.

Noi diciamo che le persone non vanno giudicate per le loro idee ma per quello che fanno. Eppure il più delle volte le cose si compiono sulla base di certe idee o convinzioni. Dunque dovrebbe vertere su queste idee il dibattimento processuale. Uno dovrebbe arrivare a convincersi d’aver sbagliato, a prescindere dalla pena prevista. La quale, comunque, non può certamente basarsi sul carcere, cioè su una reclusione meramente punitiva. Chi ha sbagliato deve essere recuperato, altrimenti sarà indotto a ripetere il crimine o anche a far di peggio. La pena deve essere rieducativa. Quando uno si convince d’aver sbagliato, è già punito: a partire da quel momento gli deve esser data la speranza di reintegrarsi, proprio perché una persona non va mai condannata, ma recuperata.

Lo stesso criminale che, dopo essersi pentito, subisce un torto, deve dimostrare una maturità sufficiente a comportarsi diversamente da come avrebbe fatto prima del pentimento. Gli sbagli che nella vita si compiono devono servire per non ripeterli. Bisogna guardarli con fiducia, non con pessimismo, anche perché la perfezione non esiste: non è forse vero che spesso facciamo sbagli senza neppure accorgercene?

Le leggi esistenti, i codici, i casi analoghi, accaduti in precedenza, dovrebbero servire soltanto come spunto di riflessione, giusto per far capire all’imputato che non è un caso speciale, mai accaduto prima. Uno deve togliersi di testa l’idea di dover essere sottoposto, per una qualche ragione, a un trattamento di favore. L’etica è terribilmente più importante del diritto.

Chiedere perdono dei propri crimini

In un universo infinito nello spazio ci si può nascondere dove si vuole pur di non pentirsi del male che s’è fatto. Poiché l’universo è anche eterno nel tempo, ci si può nascondere per sempre. Nell’universo infatti si ha consapevolezza che il suicidio non può essere fisico ma solo spirituale. Ci si nasconderà per l’eternità in un luogo remoto per la vergogna di ciò che s’è fatto, ma anche per la pervicace volontà di non pentirsi.

Sulla terra le cose sono un po’ diverse. Se uno ha compiuto crimini orrendi e, a un certo punto, s’accorge di non poter sfuggire alla giustizia, può arrivare a suicidarsi oppure a rassegnarsi ad avere il massimo della pena, che è la sentenza capitale o l’ergastolo. Cioè uno può pensare che, prima o poi, finirà di provare vergogna d’essere stato condannato per il reato compiuto.

Ma nell’universo questa stessa persona cosa dovrà pensare? A dir il vero uno può anche pensare d’aver compiuto i propri crimini secondo una certa plausibile motivazione o razionale giustificazione, per cui non ritiene di doversi pentire o comunque di non doverlo fare più di tanto. Quanti sostengono d’aver agito come criminali senza essere stati pienamente coscienti o perché condizionati da un drammatico passato o perché dovevano obbedire a un ordine superiore o perché accecati da un’ideologia o perché convinti che, in quel modo, avrebbero evitato un male peggiore? All’interno di considerazioni così particolari è difficile pentirsi al 100%, o almeno è molto difficile farlo da soli.

Ci vuole qualcuno che ci faccia capire fino a che punto si giocava la nostra responsabilità al momento di compiere un determinato crimine. Uno ha il diritto d’essere aiutato a pentirsi in qualunque momento, anche se gli si deve sempre garantire la libertà di non volerlo fare. Sono situazioni complesse, anche perché l’aiuto non può certo essere dato sulla base di motivazioni superficiali o schematiche. Bisogna saper tener testa alle argomentazioni sofisticate dei grandi criminali, che in genere sono uomini politici o militari o anche uomini di chiesa o intellettuali in grado di esercitare poteri significativi, come p. es. gli scienziati, i consiglieri, i funzionari…

Una differenza sostanziale, comunque, c’è: nell’universo la prigione o, se vogliamo, la pena è tutta interiore. Questo perché, essendo infinito nello spazio, l’universo permette a chiunque di non essere condizionato negativamente dall’atteggiamento altrui. Su questa terra, invece, gli uomini hanno sempre paura dei criminali: temono che i loro crimini possano ripetersi, anche se, essendo i grandi criminali le persone di potere, i comuni cittadini cercano di difendersi come meglio possono.

Paradossalmente là dove le condizioni di spazio e di tempo sono illimitate, l’importanza delle questioni di coscienza cresce in maniera esponenziale. Se non c’è alcun limite esterno all’agire, tutto dovrà giocarsi sulle potenzialità interne che uno dovrà per forza scoprire d’avere. E sarà su queste potenzialità che si dovrà prendere una decisione: o giocarsele tutte, mettendosi a disposizione di un proprio cambiamento significativo, o non giocarsele affatto, rendendo la propria coscienza impermeabile alle influenze altrui.

Di sicuro il tempo per ripensarci non mancherà. Nessuno può essere obbligato né a pentirsi né a non pentirsi: questa regola dovremmo adottarla anche sulla terra. Se esiste un inferno, è solo per chi lo vuole: non può esserci nessuna porta con scritto sopra: “Lasciate ogni speranza o voi ch’entrate”. Quindi niente torture, ma anche niente condanne definitive.

Naturalmente questo discorso vale anche per chi ha subito il crimine, il quale, con non meno intensità emotiva del criminale, deve essere disposto a perdonare. E, per poterlo fare, deve essere convinto di almeno due cose: la prima è che il criminale può aver avuto delle motivazioni plausibili; la seconda è che nessuno è mai totalmente innocente. Cioè dentro quelle motivazioni ce ne può essere una che riguarda, in qualche modo, la stessa vittima. Si pensi solo al fatto che esiste colpevolezza anche quando, vedendo compiere un crimine contro qualcuno, si pensa che ciò non ci riguardi. La storia è stracolma di questi peccati di omissione. Non si è abbastanza vigili e solerti per colpa del nostro opportunismo qualunquismo egoismo cinismo…: possiamo chiamarlo come ci pare.

Bisogna infine stare attenti che nell’universo non è come su questo pianeta, dove i criminali, abituati a ragionare in termini giuridici, fanno calcoli sulla possibile convenienza che hanno a pentirsi. Nell’universo l’unica vera legge umana sarà quella della libertà di coscienza: sarà impossibile dimostrare d’essere pentiti senza versare fiumi di lacrime. Non avrà alcun senso dimostrare d’essere pentiti rivelando i nomi dei propri complici o restituendo il maltolto: la verità sui grandi crimini dell’umanità sarà alla portata di tutti. L’unica “indagine” da fare sarà quella nei confronti di se stessi.

Non solo, ma anche dopo aver versato fiumi di lacrime, non si potrà pretendere che le nostre vittime ci perdonino. La riconciliazione tra vittima e carnefice potrà avvenire solo nella più assoluta libertà reciproca. Per questo motivo dovremmo sin da adesso abituarci a compiere significativi gesti di riparazione là dove si sono compiuti orrendi crimini. Dobbiamo abituarci a chiedere scusa con insistenza, nella speranza che la vittima, quando vorrà, si convincerà della nostra buona fede.