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Bucharin e il destino della Russia

Se non si leggono le opere di Nikolaj Bucharin, è difficile capire perché è fallito il socialismo di stato. Egli infatti esprime la posizione di chi voleva aiutare i contadini, conservando però l’idea di statalizzazione dell’economia (banche, industrie, trasporti, miniere, commercio con l’estero ecc.). Voleva sviluppare l’industria permettendo ai contadini di diventare borghesi. Voleva il capitalismo nelle campagne per ottenere il socialismo di stato nelle città. Iniziò a sostenere queste idee nel 1925 e, nonostante le sue successive rettifiche (in senso peggiorativo per le sorti dei contadini), tredici anni dopo venne fucilato dagli stalinisti.

I comunisti avevano fatto la rivoluzione coi contadini, ricchi e poveri, ma consideravano gli operai la loro punta di diamante: sia perché, non essendo proprietari di nulla, essi non avrebbero potuto imborghesirsi come gli agrari (kulaki); sia perché, militando nel partito bolscevico, non avevano rapporti con la chiesa, per cui erano ideologicamente più affidabili.

Una volta fatta la rivoluzione e superata la guerra civile e l’interventismo straniero, i comunisti non permisero ai contadini di svilupparsi autonomamente, ma solo in funzione degli operai e degli intellettuali, cioè dell’industria di stato e dell’apparato politico-amministrativo.

Ad un certo punto la differenza tra il gruppo di Bucharin e quello di Stalin stava soltanto nel modo di “usare” i contadini. Nessuno dei due gruppi metteva in discussione il “primato dell’industria”: semplicemente un gruppo pensava più a metodi di tipo economico (p.es. permettere ai contadini di arricchirsi, tassarli e concedere credito con banche statali), l’altro invece preferiva metodi di tipo amministrativo (il lavoro rurale va organizzato come quello operaio, essendo la terra un bene statale come le fabbriche).

A nessun bolscevico venne mai in mente di assegnare il primato dell’economia alla campagna (in un paese peraltro dove oltre l’80% dei lavoratori erano rurali), né di far ritornare gli operai alla terra, né, tanto meno, di favorire l’autoconsumo e il valore d’uso, o di potenziare le antiche comunità di villaggio (obscine) o di produrre soltanto quei beni industriali durevoli che venissero considerati assolutamente indispensabili alla riproduzione dei lavoratori e che non fossero lesivi per la tutela ambientale. A nessuno venne in mente di decentrare progressivamente, sul piano locale e regionale, i poteri politici ed economici.

Tutti avevano il terrore che in assenza di una statalizzazione e industrializzazione accelerata dell’economia, di una centralizzazione dei poteri decisionali, non solo sarebbero rinati il capitalismo e l’oscurantismo religioso, ma l’intera Russia sarebbe stata anche sconfitta dalle potenze straniere.

Così facendo però davano l’impressione che la rivoluzione socialista fosse stata un puro e semplice colpo di mano di pochi avventurieri, i quali naturalmente sapevano di non avere forze sufficienti per potersi difendere, alla lunga, dai nemici interni ed esterni.

I comunisti non hanno mai creduto in un consenso spontaneo da parte dei contadini, neppur dopo aver assegnato loro gran parte delle terre requisite ai latifondisti laici ed ecclesiastici.

Stalin subentrò a Bucharin (pur avendolo inizialmente appoggiato) quando ci si accorse che il capitalismo nelle campagne aveva reso i contadini troppo forti, in grado di ricattare non solo gli operai di città, ma tutti gli abitanti urbanizzati e persino il potere politico, la cui sopravvivenza dipendeva appunto dagli approvvigionamenti rurali.

I bolscevichi seppero solo fare la rivoluzione, ma, una volta al potere, fecero un errore dietro l’altro, tanto che, paradossalmente, se non fossero stati attaccati dai nazisti, è da presumere che sarebbero implosi prima. La vittoria, in quella terribile guerra patriottica, permise infatti a tutto il paese di non guardarsi allo specchio, di chiudere gli occhi sulle proprie contraddizioni e di andare avanti sino alla morte naturale di Stalin.

Poi improvvisamente si aprì un occhio in occasione della destalinizzazione politica voluta da Krusciov, e finalmente si aprì anche l’altro con la perestrojka di Gorbaciov, che fece capire il fallimento dell’economia sovietica, basato sull’illusione di far coincidere “pubblico” con “statale”.

In un’economia statalizzata, se non esistono motivazioni particolari – come appunto in caso di conflitti bellici -, si produce al minimo, senza interesse per la qualità e soprattutto si mente sui risultati raggiunti per non ricevere dall’alto ordini sempre più onerosi.

Purtroppo il destino ha voluto che dopo la perestrojka l’autocritica non sia approdata alla costruzione di un socialismo realmente democratico, bensì alla reintroduzione del capitalismo.

In tal senso il destino dei russi appare davvero incredibile: non solo hanno sofferto più degli altri paesi europei quando nel loro paese vigeva il feudalesimo; non solo hanno sofferto, prima di ogni altro paese europeo, i guasti del socialismo da caserma, ma ora, dopo aver capito, guardando noi, quanto si può soffrire sotto il capitalismo, hanno deciso consapevolmente di farci compagnia.