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Rivoluzione e Democrazia

Fino ad oggi è sempre successo, probabilmente a motivo del fatto che i rapporti sociali basati sulla proprietà privata condizionano pesantemente gli uomini, che ogni rivoluzione politica favorevole alla democrazia si sia trasformata in un dispotismo più o meno forte.

Tuttavia, ognuno si rende conto che non può essere la consapevolezza del fatto che la proprietà privata condiziona gli uomini, ad impedire che si facciano delle rivoluzioni. Lenin diceva chiaramente che le rivoluzioni si fanno con i proletari condizionati dal sistema borghese. Cioè le rivoluzioni si fanno quando il livello di sopportazione delle contraddizioni antagonistiche ha raggiunto la massima intensità possibile.

La soglia di sopportazione naturalmente varia di Paese in Paese, ed è anche relativa al periodo di tempo in cui, sopportando lo sfruttamento capitalistico, i lavoratori si sono lasciati condizionare dalla mentalità borghese.

Piuttosto può essere un’altra la ragione per cui, all’ultimo momento, si può anche rinunciare alla rivoluzione politica, quando cioè i mezzi che si dovrebbero usare per realizzare i suoi obiettivi contrastano in modo stridente con le esigenze di umanità di cui si ha consapevolezza.

Si può rinunciare alla rivoluzione nella speranza che gli uomini capiscano ancora di più che la necessità di un cambiamento è inevitabile, è troppo forte per essere elusa, e che proprio per questa ragione bisogna attenersi ancor più scrupolosamente al rispetto dei valori umani universali. Non è singolare che nel momento in cui scoppiò la rivoluzione d’Ottobre comportò pochissimi morti?

Non si deve affatto disprezzare la rinuncia alla rivoluzione politica per motivi umanistici, poiché ciò non implica che il soggetto rivoluzionario non possa continuare a lottare per la transizione. Né implica che l’occasione della rivoluzione non possa ripetersi. Peraltro, nessun rivoluzionario dovrebbe mai dimenticare che la rivoluzione è sempre l’esito di un lavoro costante, faticoso, sotterraneo, quotidiano, condotto a tutti i livelli.

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I teorici del liberalismo e del socialismo riformista hanno sempre rimproverato a Lenin il carattere elitario del suo partito. Addirittura c’è chi vede, ancora oggi, in questa caratteristica la causa primordiale della successiva caduta del cosiddetto “socialismo reale” (meglio sarebbe dire “socialismo statale o amministrato”).

Qui tuttavia bisogna chiedersi: quando si vuole operare un rivolgimento rivoluzionario di un governo al potere, che non sia un semplice “colpo di stato”, ma appunto una rivoluzione che coinvolga le masse oppresse, le quali devono mirare a una ristrutturazione radicale dell’intera società, è forse possibile limitarsi a una lotta “parlamentare” o comunque nei limiti della “legalità”?

Chi avverte con forza l’esigenza di “ribaltare il sistema”, poiché lo ritiene assolutamente irrecuperabile (e questa era la consapevolezza che Lenin aveva sin da giovane), fino a che punto può essere disposto a circoscrivere legalmente la propria azione rivoluzionaria? E’ mai esistito un governo oppressore che abbia accettato una transizione democratica verso l’uguaglianza e la giustizia sociale? Se la Russia zarista non fosse diventata “socialista”, con la rivoluzione bolscevica, non sarebbe stata forse destinata al capitalismo?

Lenin potrebbe aver avuto torto se, oltre alla soluzione “bolscevica”, il Paese avesse potuto beneficiare di un’alternativa, quale ad es. poteva essere il populismo. Ma la storia ha dimostrato che il populismo non aveva in sé la forza sufficiente per rovesciare il regime zarista. Il populismo fu in grado di farlo quando si associò al bolscevismo. La sciagura del socialismo post-rivoluzionario dipese dall’incapacità del bolscevismo di valorizzare al meglio l’apporto dei movimenti di origine non leninista.

Una forza rivoluzionaria può accettare i metodi legali solo fino a quando essi vengono tollerati dal potere, il quale, utilizzandoli, spera appunto di riassorbire nella maniera più indolore (che non è quella più facile né quella più sbrigativa, ma certamente quella più sicura) ciò che con la dittatura gli riuscirebbe con maggiore difficoltà. Normalmente le dittature funzionano quando nell’ambito della società esiste un forte livello di povertà e di ignoranza. Le moderne dittature hanno bisogno della parvenza della democrazia per poter governare.

Ora, quando un potere è oppressivo, perché riflesso di una società basata sull’antagonismo di classe, la democrazia viene usata, in politica, solo fino a un certo punto. Quando non si ottengono i risultati sperati, il ricorso alla dittatura è inevitabile, senza particolari riserve da parte della borghesia e delle masse che si lasciano incantare dalle sue promesse.

Ecco, quando giunge quel momento, ha forse senso credere che un partito democratico-rivoluzionario possa continuare a sussistere nella “legalità”? L’esigenza di circoscrivere la propria azione a un’élite di rivoluzionari di professione non diventa forse una necessità?

Se nella fase in cui la democrazia formale, apparente (quella usata per ingannare i lavoratori), si trasforma in aperta dittatura, il popolo non reagisce immediatamente opponendo un netto rifiuto, come si può salvaguardare l’istanza rivoluzionaria se non si entra nella “clandestinità”? Se non si opta per la “illegalità”? Chi può dire con sicurezza che sotto il capitalismo la Russia zarista avrebbe incontrato meno problemi di quanti ne ha incontrati sotto il comunismo?

Lenin dunque non decise di dare un carattere elitario al proprio partito perché egli intrinsecamente era antidemocratico, ma perché, in quel frangente storico, era quello l’unico modo per lottare efficacemente contro il governo zarista, divenuto sempre più reazionario. Non dobbiamo dimenticare che Lenin passò vari anni in prigione, prima di decidersi di entrare nella “illegalità”.

E quando decise di farlo, non si comportò come un anarchico o un terrorista (vedi suo fratello), ma come uno che aveva a cuore il protagonismo delle masse. L’Iskra non avrebbe avuto alcun successo senza tale protagonismo, né si sarebbe realizzata alcuna rivoluzione.

La rivoluzione bolscevica è stata tradita da coloro che non hanno voluto allargare alle masse popolari la gestione del potere politico e dell’amministrazione della società.

Vinti gli interventisti stranieri e i “bianchi” interni, i bolscevichi avrebbero dovuto affermare la piena democrazia sociale, la cooperazione, l’autogestione, il primato dell’agricoltura… La NEP fu una semplice concessione obtorto collo.

Purtroppo non si rinunciò neppure sotto Lenin alla centralizzazione. Fu infatti sotto il leninismo che vennero poste le basi dell’accentramento amministrativo da parte dello Stato, del monopartitismo, dell’unificazione ideologica, della subordinazione dell’agricoltura alle necessità dell’industria e delle città, ecc. Lenin, soggettivamente, si rendeva conto della fase transitoria di questa situazione, ma non ebbe mai la lungimiranza di porre le basi per un sicuro superamento.

Quando riuscì a far accettare l’idea della NEP e della cooperazione, era già troppo tardi, anche perché l’attentato contro la sua vita gli impediva di controllare da vicino la coerenza democratica delle scelte compiute. Lenin doveva educare prima e meglio il suo staff dirigenziale all’uso della democrazia nei momenti più critici, quando col centralismo si è convinti di poter gestire più facilmente o con più sicurezza le cose.

Alla rivoluzione russa sono mancati i leaders democratici, capaci di sensibilità umana, non disposti cioè a sacrificare sull’altare della politica ogni esigenza democratica e umanistica. Se non si pongono le basi oggettive di questa necessità – che sono quelle dell’uso personale e collettivo della libertà -, finiscono col rimetterci anche i leaders che soggettivamente possono sembrare più democratici di altri. Lo stalinismo infatti non ebbe scrupoli nel togliere di mezzo gli esponenti più significativi della rivoluzione d’Ottobre.

La rivoluzione russa ha dimostrato che anche quando si è mossi dalle istanze rivoluzionarie più giuste, se non si è capaci di autentica democrazia, di autentico umanesimo, le conquiste politiche vengono facilmente strumentalizzate da chi vuole affermare solo un’esigenza di potere.

Il torto di Lenin fu quello di aver valorizzato i suoi seguaci più per le capacità politiche che non per la sensibilità umana. Quando si accorse dell’errore (e il Testamento lo dimostra), era troppo tardi. La prima illustre vittima della rivoluzione fu lui stesso.

La democrazia formale (II)

L’ASSENZA DI RESPONSABILITA’ PERSONALE

In assenza di autogestione, la democrazia resta formale anche quando, dopo una crisi di governo, si verifica l’alternanza nella guida di un Paese. Una democrazia delegata che non prevede quella diretta rappresenta solo una gestione elitaria del potere, soggetta continuamente al pendolo fra anarchia e dittatura. Infatti, quando l’aristocrazia politica s’accorge che i suoi metodi non garantiscono ai gruppi oligarchici la necessaria stabilità economica, ecco che scatta l’esigenza di cercare “l’uomo della Provvidenza”.

Quando la democrazia parlamentare è in crisi, perché i soggetti politici si sono dimostrati incapaci di governare e non godono più alcuna fiducia da parte degli elettori, è facile che qualche gruppo parlamentare inizi a rivendicare un rapporto diretto con le masse (magari in questo viene sollecitato da altri gruppi o movimenti extraparlamentari).

Improvvisamente la democrazia tende ad assumere un atteggiamento ambivalente: facendo ricorso, specie attraverso i media, all’istintività delle masse (populismo), essa mira a cercare una legittimazione dell’autoritarismo al di fuori dell’ambito meramente parlamentare. L’obiettivo è soltanto quello di rafforzare l’esecutivo, le funzioni monocratiche del governo o di affermare addirittura un personalismo presidenziale.

Fra la democrazia delegata e l’anarchia è dunque difficile dire cosa sia meglio, poiché la prima si trasforma facilmente in un arbitrio legalizzato (“di Stato”), patrimonio di pochi: il che può comportare conseguenze più nefaste dell’arbitrio dei singoli cittadini.

Non è forse singolare che nei Paesi a democrazia delegata ci si appelli al principio della “responsabilità personale” solo quando si tratta di punire il cittadino per aver compiuto un’azione illegale? “Positivamente” la responsabilità personale, in una democrazia delegata, non appartiene a nessuno: a chi comanda infatti spetta il privilegio dell’arbitrio, a chi ubbidisce il dovere di sottostarvi.

Per i governi delle democrazie delegate un esempio di cittadino modello è quello che obbedisce alle leggi dello Stato e paga le tasse, cioè obbedisce a leggi e tasse che “altri” gli hanno imposto, senza chiedergli alcun parere.

Il massimo della democrazia diretta, in questi Paesi, è rappresentato dall’esercizio del referendum popolare, cioè dalla possibilità (piuttosto lenta e macchinosa) di abolire una legge già in vigore.

UN NUOVO RAPPORTO TRA ELETTO ED ELETTORE

La vera democrazia non può essere delegata se l’eletto non è un’espressione diretta dell’elettore, cioè un’emanazione circostanziata nel tempo e nello spazio, che può essere facilmente tenuta sotto controllo.

L’eletto deve rappresentare costantemente la volontà di un elettore particolare (che può essere un gruppo, una comunità, sempre di dimensioni ristrette, poiché l’eletto deve costantemente tenersi in rapporto, in contatto con la base che l’ha votato).

Per essere veramente efficace, l’esercizio della responsabilità personale deve essere quotidiano, in modo tale che i risultati di tale impegno si possano vedere con una certa periodicità.

Se l’esercizio di tale responsabilità non comporta, col tempo, una progressiva trasformazione della società (nel suo complesso e non soltanto in singoli settori), facilmente la democrazia involve verso una gestione arbitraria del potere. Quanto più gli antagonismi, gli abusi… diventano un male endemico, tanto più si vanno a cercare soluzioni estreme, categoriche, destinate soltanto a peggiorare le cose.

Naturalmente l’eletto, in una democrazia diretta, è a sua volta un membro della comunità che lo ha votato: ciò significa ch’egli non può limitarsi a rappresentare passivamente la volontà di altri, ma deve interagire con tale volontà, manifestando le proprie opinioni.

Le masse popolari, di per sé, non sono migliori dei singoli eletti (a volte non sono migliori neppure dei singoli autocrati). Cosa sono stati, in fondo, il nazi-fascismo e lo stalinismo se non la miscela di due volontà perverse: una individuale (consapevole) e l’altra collettiva (strumentalizzata)?

Per questa ragione non ha senso sostenere che laddove le masse pretendono maggiore protagonismo, lì c’è sicuramente più democrazia. La democrazia non è un concetto che si può ipostatizzare, non è mai una definitiva acquisizione: la sua presenza va dimostrata ogni volta, in quanto è sempre un obiettivo da raggiungere. Se non fosse così, noi p.es. non riusciremmo a spiegarci il passaggio dal comunismo primitivo allo schiavismo.

Al massimo si potrebbe dire questo: la democrazia è molto di più un obiettivo nelle formazioni sociali antagonistiche che non in quelle collettivistiche, nel senso che mentre nelle prime il raggiungimento dell’obiettivo comporta un preliminare rovesciamento del sistema, nelle seconde invece comporta di quest’ultimo una progressiva evoluzione.

In un tipo di sistema la democrazia affermata come valore serve per ricordare agli uomini che non sono delle bestie selvagge; in un altro tipo serve a ricordare che, se tradiscono certi ideale, possono sempre diventarlo.

Di sicuro noi sappiamo solo una cosa: che è più facile realizzare la democrazia là dove la gente è abituata a decidere, cioè ad assumersi direttamente delle responsabilità. Certo, anche questa gente può compiere delle scelte sbagliate o addirittura lasciarsi corrompere, ma avrà meno motivi di addebitarne la causa a enti impersonali o a persone estranee.

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Quando c’è l’esigenza di farsi rappresentare, deve esserci inoltre la possibilità di potersi rappresentare da soli. Vi possono infatti essere dei casi così gravi (minacce alla libertà, violazioni di diritti, disastri ambientali…) per i quali l’intervento diretto di un gruppo o dell’intera comunità è più efficace di qualunque altra soluzione.

Per queste ragioni la democrazia diretta, che è poi l’unica vera democrazia, può funzionare solo quando la comunità sociale non è troppo grande, cioè quando esiste, in concreto, la possibilità di controllare l’operato dei cittadini e quindi anche dei loro delegati, che devono poter essere rimossi in qualunque momento se vengono meno al mandato ricevuto (ciò ovviamente significa che all’eletto va data la possibilità di difendersi).

In tal senso è assurdo che una persona possa pretendere di fare il politico di professione. La politica è lo strumento per rivendicare dei diritti, per gestire degli spazi, per prendere delle decisioni, per risolvere dei conflitti sociali: non può essere una dimensione di vita.

La politica è un contenitore che può essere riempito solo di tutto ciò che non è politico. Quando la politica si rende autonoma dalla vita sociale e dalla cultura, diventa eo ipso arbitraria, sempre e comunque, a prescindere dalle sue azioni particolari.

QUALI SPERANZE PER IL FUTURO?

La storia spesso manifesta questo singolare aspetto: proprio mentre le forze regressive s’incaponiscono a difendere i loro privilegi e la cultura del passato, che ha già perso di credibilità, tende a formarsi l’alternativa per il futuro. Questa, tuttavia, per risultare vincente, ha bisogno di porsi in maniera creativa e costruttiva: non può limitarsi ad attendere che il consenso le venga consegnato su un piatto d’argento. Anche perché il crollo rovinoso della reazione potrebbe travolgerla.

In altre parole, proprio mentre è più forte il potere politico e militare delle forze conservatrici, molto più debole è il loro potere morale, la loro legittimazione sociale – ed è questo, in definitiva, che deciderà la loro sorte.

Questo momento di transizione sarà tanto più veloce, tanto meno cruento quanto più risoluta sarà la resistenza delle forze regressive. Naturalmente la velocità della transizione non è di per sé un indice sicuro della sua democraticità: la velocità distruttiva di certe rivoluzioni (si pensi p.es. a quella francese) s’è trasformata ben presto in altrettanta velocità autodistruttiva.

In effetti, non basta la fiducia dei cittadini per essere sicuri che le nuove istituzioni saranno caratterizzate eticamente. Occorre anche e soprattutto che si realizzi la democrazia sociale, per la quale le istituzioni hanno compiti davvero limitati. Un’istituzione ha senso solo quando non può staccarsi dalla società, e questo, quando una società per secoli ha convissuto con la realtà delle istituzioni, è più facile a dirsi che a farsi.

Il cittadino democratico dovrà abituarsi all’idea che in una società autogestita ogni abuso si ripercuote immediatamente su tutti i cittadini, nessuno escluso: o si vive insieme nel bene comune o nessuno si salva. Là dove esiste la democrazia sociale, la corruzione non può dilagare come un cancro incurabile.

La democrazia formale (I)

Nella nostra società la democrazia è formale perché viene esercitata da poche persone elette in Parlamento o in altre istituzioni di potere, ove il vero potere democratico, quello popolare, è stato delegato a dei rappresentanti che non rendono conto di quello che fanno e che, in ogni caso, hanno la facoltà di fare quasi quello che vogliono per tutta la durata del loro mandato. Persino la Costituzione afferma che di fronte al popolo il Parlamento non ha “vincolo di mandato”(art. 67). Nessuno può contestare una decisione presa dal Parlamento. Nessuno può perseguire legalmente un parlamentare o un partito che disattendano il proprio programma elettorale. Tale articolo è inoltre la giustificazione al fatto che ai parlamentari non possa essere revocato il mandato.

In tal senso la democrazia è formale non tanto o non solo perché borghese (anche nel socialismo amministrato esisteva una democrazia delegata) quanto perché esclusivamente delegata, cioè non anche diretta.

Il concetto di democrazia viene usato in maniera strumentale perché per i politici il consenso non ha un valore in sé, ma solo in funzione della loro elezione. Questo è molto più vero per il voto politico-parlamentare che non per quello amministrativo-locale. Il fatto di dover esercitare la delega nella capitale è indubbiamente, per il politico, un incentivo a deresponsabilizzarsi. Quanto più egli si allontana dall’ambiente che lo ha eletto, tanto più sarà soggetto a corruzione.

In tal senso si può dire che la democrazia delegata fine a se stessa non è che una delle maschere della moderna dittatura, pronta a essere tolta in caso di necessità. Le parole che escono da tale maschera: progresso, pluralismo, diritti, libertà, democrazia…, sono il pane quotidiano con cui si cerca d’ingannare la buona fede della gente comune.

Se i potentati politico-economici avessero a che fare con gente ignorante e spoliticizzata, probabilmente userebbero meno artifici retorici (come in genere accade nei paesi del Terzo Mondo).

Questo per dire che gli abusi compiuti dai politici generalmente non dipendono da motivazioni di carattere personale (si troveranno sempre persone più o meno disposte alla corruzione o alla concussione), ma dipendono proprio dal fatto che il sistema politico è strutturato in modo tale ch’essi non potrebbero comportarsi diversamente. Un eletto che sostituisce in Parlamento un eletto corrotto, prima o poi sarà anch’egli soggetto a corruzione. Il fatto stesso di prendere degli stipendi così elevati e di fruire di immensi privilegi di varia natura, è già fonte di un incredibile abuso, a prescindere dall’ideologia politica che si professa.

IL PRIMATO DELL’ECONOMIA

Nell’epoca borghese, essendo l’interesse generale della società subordinato a quello particolare di una classe particolare: la borghesia (soprattutto quella imprenditoriale), inevitabilmente la politica è subordinata all’economia. Solo in apparenza dunque lo Stato borghese si pone come forza autonoma che organizza il movimento spontaneo dell’economia.

Nel socialismo democratico non sarà sufficiente affermare che il plusvalore può essere recuperato da una classe operaia padrona delle proprie fabbriche (così come i contadini saranno padroni delle loro terre). Cioè non sarà sufficiente affermare la fine del lavoro salariato e la socializzazione integrale dei mezzi produttivi. Occorrerà anche affermare la possibilità di abolire la divisione del lavoro. Se un cittadino vuole diventare un lavoratore globale, onnilaterale, la società dovrà offrirgliene l’opportunità.

Inoltre la democrazia avrà senso solo se locale, ma a livello locale, sul piano economico, si dovrà affermare il principio dell’autosufficienza e dell’autoconsumo, altrimenti la democrazia non avrà mai delle basi solide.

Si può anche sviluppare la scienza e la tecnica al punto da rendere superfluo l’operaio nella produzione industriale: in tal modo peraltro gli si permetterebbe di gestire il proprio tempo libero secondo i propri desideri. Ma questa prospettiva non costituirebbe una soluzione convincente: 1) perché gli uomini diventerebbero schiavi delle macchine; 2) perché essi s’illuderebbero che il benessere sia garantito in modo automatico.

Il socialismo non può essere contrario al macchinismo, poiché caratteristica dell’uomo è quella di avere con la natura anche un rapporto strumentale, artificiale. Tuttavia, il socialismo deve creare le condizioni perché il macchinismo non arrivi a prevalere sul rapporto naturale dell’uomo con l’ambiente. Il macchinismo deve rimanere una libera scelta dei singoli individui e non un’imposizione. Ciò significa che tra macchinismo e non-macchinismo andrà continuamente cercato un compromesso.

Le condizioni che la società deve creare, sono relative all’umanizzazione dei rapporti sociali. Quanto più la società è esigente su tale umanizzazione, tanto più essa deve pretendere di non sentirsi minacciata da elementi artificiosi ed eccessivamente complessi. La vera complessità deve riguardare la profondità del rapporto umano, cioè l’intensità con cui lo si vive, e a tale scopo il macchinismo non è indispensabile.

Lo sviluppo del macchinismo, partito dall’esigenza di compensare un vuoto esistenziale e sociale, non ha fatto altro che rendere sempre più superficiali i rapporti umani. Con l’uso sistematico della scienza e della tecnica, l’uomo ha smesso di volgere lo sguardo verso se stesso e di cercare la qualità delle cose nel loro aspetto interiore.

La socializzazione dei rapporti umani -quale si è verificata sotto il capitalismo- ha escluso la loro umanizzazione. Nei sistemi precapitalistici non mancava la socializzazione, ma mancava la piena umanizzazione, in quanto vigevano rapporti antagonistici. Non era la natura a determinare completamente la qualità, il tipo, le modalità del rapporto umano, poiché questo rapporto aveva anche le possibilità di determinare se stesso: ciò che lo ostacolava era appunto la divisione in classi della società.

Con il capitalismo l’alienazione dell’uomo ha raggiunto livelli eccezionali; con il socialismo di stato questi livelli sono stati addirittura superati. I Paesi est-europei hanno avuto la forza di liberarsene e speriamo non abbiano la stupidità di accettare le nostre alienazioni. L’Occidente invece pare indirizzato verso l’accettazione di forme alienanti sempre più sofisticate.

DAVVERO IL CAPITALISMO NON HA ALTERNATIVE?

In una democrazia sociale autogestita non accadrebbero ai nostri agricoltori le assurdità imposte dalla CEE (relative alle quote fisse di latte, al numero massimo di capi di bestiame, alla quantità di produzione possibile, ai prezzi ridicoli dei prodotti agricoli e così via). Non accadrebbe che un prodotto uscito di fabbrica e giunto al negozio venga a costare tre-quattro-cinque volte di più. O che i prezzi di molti prodotti siano decisi non dalla loro qualità intrinseca, ma dall’etichetta, dalla firma, dalla pubblicità, dal monopolio, dalla moda, dalla stagione e così via. Ha forse un senso che i prezzi dei prodotti agricoli vengano decisi dall’industria di trasformazione o dalle grandi borse di commercio o dalle commissioni economiche degli Stati o addirittura dai singoli negozianti, in una parola da tutti meno che dall’agricoltore?

I prezzi delle merci vanno decisi non solo dai produttori, non solo dai monopoli, non solo dai tecnici e dagli esperti, non solo dal mercato, e neppure soltanto dai consumatori, ma vanno decisi da una società i cui produttori non siano sostanzialmente diversi dai consumatori: una società cioè dove il rapporto tra produttore e consumatore sia così stretto che praticamente la diversità dei mestieri non possa di per sé creare alcun ostacolo alla realizzazione di quel rapporto.

Una società dove i cittadini, nei tribunali, devono poter giudicare i loro concittadini, essendo gli unici a conoscerli meglio di chiunque altro. Giudici, avvocati, pubblici ministeri devono essere scelti dagli stessi cittadini che assisteranno, come testimoni, come parenti o conoscenti, come giuria popolare ecc., ai processi pubblici e privati.

Lo stesso servizio militare non dovrebbe forse essere fatto nel luogo in cui si vive e che si conosce perfettamente e che si saprebbe difendere con sicurezza? In questo senso, non dovrebbe forse essere fatto da tutti i cittadini, periodicamente, e non da professionisti stipendiati o da soldati di leva una volta soltanto nella loro vita?

Ogni esperienza di autogoverno locale nel passato è fallita non perché fosse locale, ma perché non si era risolto l’antagonismo delle classi. I concetti di Stato, nazione, impero ecc. sono ogni volta emersi per cercare di risolvere un conflitto di livello geografico più circoscritto. In tal modo non si faceva che estendere il conflitto a livelli più elevati, offrendo solo l’illusione d’averlo risolto. Il crollo degli Stati, delle nazioni, degli imperi è sempre stato e sempre sarà una conseguenza di quella illusione.

Tornare all’uomo primordiale

Dovremo tornare a vivere come l’uomo primordiale (“primitivo” lo usiamo in senso dispregiativo), nella piena consapevolezza che qualunque altra forma d’esistenza non è naturale né umana. Dovremo arrivare alla conclusione che un’esistenza umana è possibile solo se è conforme a natura, le cui leggi ci hanno preceduto nel tempo. Dovremo arrivarci in maniera scientifica, il che, stante l’attuale antagonismo sociale, sarà una grande contraddizione in termini. Infatti, come sarà possibile che, sviluppando al massimo grado la tecnologia, si arrivi alla convinzione che il sistema di vita più naturale e quindi più umano è stato quello in cui se ne usava di meno?

Una consapevolezza del genere dovrebbe essere acquisita rinunciando progressivamente alla scienza, o comunque rinunciando a una forma di civiltà che usa la scienza contro gli interessi umani e naturali. Ora, poiché non è questa la nostra strada, è da presumere che lo sviluppo abnorme della scienza, all’interno di una civiltà basata sull’antagonismo delle classi, ci porterà inevitabilmente a una catastrofe mondiale. Noi arriveremo a capire la verità di noi stessi non per virtù ma per necessità. Questo perché la nostra libertà vuole scandagliare tutte le possibili esperienze individualistiche e quindi irrazionali, per poter arrivare a capire che la migliore era la prima, l’unica davvero libera e collettivistica.

Dunque dalla scienza alla coscienza: ecco il percorso positivo che dobbiamo intraprendere. La coscienza deve diventare la scienza delle cose umane, da viversi in maniera condivisa, nel rispetto delle leggi riproduttive della natura. Questo percorso non è detto che sia lineare, anzi, sarà sicuramente a sbalzi, a zig-zag, con accelerazioni e retromarce, ma resta comunque un percorso verso una direzione.

Di tale percorso oggi possiamo con sicurezza dire che si sono fatti più progressi sul versante dell’umanesimo laico che non su quello del socialismo democratico. Se costretto, il capitalismo è più disposto ad accettare una tendenza verso l’indifferenza religiosa, persino un’esplicita professione di agnosticismo o di ateismo, che non il più piccolo richiamo a favore della necessità di gestire in maniera collettiva la proprietà privata.

Tutti i discorsi strutturali a favore del socialismo vengono accuratamente rimossi. Anzi, quanto più è forte la crisi del sistema, tanto più i governi borghesi utilizzano le leve dello Stato per risanare i buchi finanziari, i crolli borsistici, i fallimenti aziendali. Il bene pubblico viene utilizzato per sanare i guasti dell’economia privata.

Occorre creare un movimento popolare che nel contempo sia favorevole alla laicità e al socialismo, un movimento incentrato sui problemi quotidiani delle classi e dei ceti che più soffrono le contraddizioni di questo sistema. Se il movimento non sa affrontare i bisogni della gente, se sovrappone a questi bisogni dei discorsi astratti, ideologici, resterà inevitabilmente settario e inefficace.

Tale movimento dovrà saper coinvolgere il maggior numero possibile di persone, a prescindere dalla loro collocazione sociale, economica o politica. Senza ampi consensi non si realizza alcuna transizione. E soprattutto quand’esso propone forme di tutela ambientale, di risparmio energetico ecc., non dovrà farlo avendo di mira l’obiettivo di rendere più sopportabile il sistema.

Oltre il socialismo scientifico

Il socialismo scientifico è fallito per vari motivi, ma soprattutto perché, quando un’ideologia si oppone, in nome della scienza, alle necessità della natura, non può che fallire.

Infatti, tale opposizione risulta sempre essere il sintomo di un’altra non meno grave, quella tra potere e libertà di coscienza (o tra istituzioni e individui). Là dove esiste una verità scientifica che si vuol far valere contro le esigenze riproduttive della natura, lì esiste anche, inevitabilmente, la pretesa della politica di poter decidere in che modo la società deve vivere la democrazia.

La natura non può essere vista come “matrigna”, cui occorre strappare con forza o con astuzia, tutto quanto occorre per vivere. Quando la natura ci appare così è perché in realtà l’essere umano è diventato il principale nemico di se stesso. Non a caso nel momento in cui accadono disastri naturali non ci chiediamo mai quanta parte abbia avuto l’antropizzazione nel causarli. Preferiamo motivarli appellandoci alla fatalità.

Sotto questo aspetto è stato un errore clamoroso non solo aver voluto contrapporre la scienza e la tecnica alla natura, ma anche non aver capito che tale contrapposizione ne rifletteva un’altra ancora più grave: quella tra uomo e uomo, che a sua volta ha generato quella tra uomo e donna.

E’ significativo il fatto che qualunque pretesa abbia l’uomo di porsi al di sopra della natura, si manifesta, implicitamente, anche come prevaricazione del maschile sul femminile. Odiamo la natura perché odiamo noi stessi e nell’odiare se stesso l’uomo tende ad assoggettare la donna.

Ecco perché bisogna dire, senza infingimenti, che il socialismo scientifico non ha contribuito minimamente a migliorare né i rapporti tra uomo e natura né quelli tra uomo e donna. Ancora non riusciamo ad accettare l’idea di una nostra strutturale dipendenza dalle esigenze della natura. Se l’uomo accettasse questa evidenza, farebbe di tutto per tutelare al meglio non solo le priorità della natura ma anche quelle della donna.

Se l’intelligenza umana non viene messa al servizio della conservazione della natura e della riproduzione della specie umana, non c’è futuro. E per converso: se il genere femminile non si oppone alla prevaricazione maschile, non c’è futuro né per la natura né per l’uomo.

Per evitare la devastazione della natura e quindi l’autodistruzione del genere umano, bisogna uscire dal concetto di “civiltà”, soprattutto da quello basato sullo sviluppo tecnico-scientifico. Infatti è sulla base di questo sviluppo che gli uomini si sentono autorizzati a sfruttare sia le risorse naturali che il lavoro altrui, cioè le braccia e la mente di chi non dispone di proprietà privata.

Dobbiamo uscire dal concetto di “forza” o di “dominio” ed entrare in quello di “coesistenza pacifica”, di “eco-compatibilità” di ogni azione umana. La differenza deve diventare più importante dell’identità: la differenza dà anzi “identità” all’io. E la prima differenza da far valere è quella tra uomo e natura, nonché quella tra uomo e donna.

Il socialismo scientifico ha avuto ragione nei confronti di quello utopistico, poiché è illusorio poter costruire dei “pezzi di socialismo” all’interno del capitalismo: la rivoluzione politica è la conditio sine qua non per realizzare la transizione.

Nel corso del Medioevo si poté formare il capitalismo mercantile come forma illusoria di superamento delle contraddizioni del servaggio rurale. E per molto tempo le due forme di antagonismo sociale hanno convissuto, per quanto il feudalesimo abbia cercato di opporre una certa resistenza alla nascita della società borghese; anzi, quest’ultima, se vogliamo, si è sviluppata con maggiore successo proprio là dove erano più acute le contraddizioni feudali.

Tuttavia il socialismo democratico non può svilupparsi in un paese ove domina il capitalismo: gli organi di governo, politici ed economici, troverebbero facilmente il modo per screditare, circoscrivere e smantellare singole esperienze di socialismo autogestito, specie se queste avessero l’ambizione di diffondersi.

L’unico modo per superare il capitalismo è quello di sfruttare le sue interne contraddizioni, organizzando un movimento eversivo. Quanto più questo movimento sarà popolare, tanto meno traumatica sarà la transizione, che in ogni caso non sarà indolore per le classi abituate a vivere sulle spalle altrui.

La rivoluzione politica, in fondo, è solo la premessa formale della transizione: un semplice punto di partenza. Tutto il resto riguarda la prosaicità degli aspetti sociali, economici, culturali, che devono mettere radici in profondità.

Infatti è stato proprio su questi aspetti che il socialismo scientifico ha fallito i suoi obiettivi. Li ha falliti sul piano culturale, imponendo a forza un’ideologia di partito, e li ha falliti sul piano sociale, sottomettendo completamente la società civile alle esigenze del centralismo statale. Il fallimento è dipeso anche dal fatto che ci si è lasciati abbacinare dai successi del benessere collettivo assicurati in occidente dalla rivoluzione tecno-scientifica, senza rendersi conto che queste forme di benessere venivano pagate duramente sia dalle popolazioni del Terzo Mondo, spogliate delle loro risorse e della loro autonomia gestionale, che dall’ambiente naturale, sottoposto a un saccheggio indiscriminato, nella convinzione che le sue risorse fossero illimitate.

In un certo senso il modello di vita che dobbiamo perseguire è quello stesso vissuto nel Medioevo, ma senza servaggio e senza clericalismo, oppure, se più ci piace, il modello delle società preschiavistiche.

Umanesimo Laico e Socialismo Democratico

Cosa s’intende per “umanesimo laico”?

Anzitutto l’umanesimo laico non è che l’aspetto culturale del “socialismo democratico”, che invece riguarda la sfera socio-economica e politica.

L’umanesimo è il tentativo di valorizzare le espressioni di umanità dell’essere umano, uomo o donna che sia.

Col termine “essere umano” intendiamo qualunque persona di qualunque cultura, area geografica, etnia, lingua, religione ecc., del passato, del presente e del futuro.

Tuttavia, l’umanesimo che ci preme valorizzare è esclusivamente quello “laico”, che per noi vuol dire “non confessionale”, cioè “ateo” o “agnostico”, indifferente o contrario alla religione, a qualunque forma di appartenenza ecclesiale, per quanto riteniamo da escludere a priori ogni forma di coercizione riguardo all’atteggiamento da tenere nei confronti della religione.

L’umanesimo che ci interessa è quello che mette l’essere umano al centro della storia, e non una divinità o una qualunque entità extra-terrestre o sovrumana o una qualunque organizzazione umana che si faccia portavoce di concezioni religiose, mistiche o teologiche.

La centralità dell’essere umano non significa affatto che la storia debba avere la prevalenza sulla natura.

L’essere umano è davvero “umano” solo se si comporta in maniera conforme alle leggi di natura, solo se rispetta le condizioni di riproducibilità naturale dell’ambiente in cui vive.

Una prevalenza della storia sulla natura significa, in sostanza, una prevalenza dell’artificiale sul naturale, e quindi, di conseguenza, un allontanamento progressivo dell’essere umano da se stesso.

Quindi per noi non è solo vera l’affermazione che “se dio c’è l’uomo non esiste”, ma è vera anche l’altra, secondo cui “o si rispetta la natura o non si rispetta l’uomo”.

Ci rendiamo conto che se per un credente può essere facile, in via di principio, accettare la seconda affermazione, è praticamente impossibile accettare la prima.

Tuttavia, a questa persona vogliamo dire che per noi “ateismo” significa semplicemente rinunciare a qualunque rappresentazione di ciò che si vuole far passare per “non umano”. Significa rinunciare a forme interpretative che non trovino nelle vicende umane le loro giustificazioni.

Lo sviluppo della storia (di tutta la storia, anche quella che con arbitrio chiamiamo “preistoria”) va spiegato con la storia stessa. Se esiste qualcosa che va “oltre” la storia, non è che la natura, poiché all’essere vivente non è dato sulla terra che vivere un’esistenza secondo natura.

Qualunque rappresentazione o giustificazione di realtà extra-naturali o sovrumane è una giustificazione di rapporti non umani e non naturali su questa terra.

Per “socialismo democratico” s’intendono molte cose ma sostanzialmente due:

1. la proprietà comune dei mezzi produttivi,
2. l’autoconsumo di quanto prodotto.

La democrazia politica è una conseguenza di quella socio-economica.

Qui devono essere chiarite due cose.

1. Quando si parla di abolire la proprietà privata dei principali mezzi produttivi (quelli che danno sostentamento a un’intera comunità) non s’intende abolire la proprietà privata dei mezzi “personali”, né trasferire allo Stato, o a un qualunque altro organo che si ponga al di sopra della comunità locale, la proprietà dei mezzi produttivi.

2. Quando si parla di “autoconsumo” si intende escludere ogni dipendenza da mercati esterni alla comunità produttiva.
La comunità può vendere sul mercato il surplus che ottiene dalla propria produzione, e può ovviamente acquistare quanto non riesce a produrre. Ma il valore d’uso deve prevalere sul valore di scambio e il baratto dovrebbe sostituire l’uso della moneta.

Una comunità basata sulla proprietà comune dei mezzi produttivi e sull’autoconsumo, ovviamente è caratterizzata dall’autogestione.

Cooperazione e Autogestione sono i principi fondanti la democrazia politica, che è per forza di cose “diretta” e che, quando è “delegata”, cioè “indiretta”, lo è solo temporaneamente, o comunque un qualunque rappresentante della comunità, come è stato eletto, così deve poter essere rimosso, se la sua volontà non è conforme al mandato ricevuto.

Una democrazia diretta, autogestita, impedisce gli abusi di potere, o comunque obbliga a far ricadere il peso di decisioni sbagliate sull’intera comunità, che così si assume la responsabilità delle proprie azioni.

Una comunità autogestita è nel contempo una comunità socio-economica, politica e militare. Si tratta infatti di gestire una porzione limitata di territorio, e di difenderla da eventuali aggressori esterni.

Qualunque trasmissione del sapere deve essere funzionale alle esigenze di riproduzione e di sviluppo della stessa comunità.

Indicativamente e progressivamente vanno superate tutte le forme di divisione del lavoro (manuale e intellettuale) e della conoscenza (astratta-concreta, scientifica-umanistica).

E’ ovvio che in una comunità del genere la prevalenza va data all’ambiente rurale, rispetto a quello urbano. La città può essere usata per manifestazioni commerciali o fieristiche, ma va esclusa categoricamente qualunque dipendenza organica, strutturale, della campagna nei confronti della città.

La dittatura della democrazia (III)

Che cosa significa “governo del popolo”? Significa il contrario della democrazia parlamentare, e cioè che il popolo, là dove vive, decide la soluzione dei problemi che incontra. La decide per conto proprio, senza delegare nessuno; oppure, in caso di delega, questa è sempre a termine, per un mandato specifico: oltre una certa scadenza, oppure una volta esaurito il compito, il delegato decade dalla propria nomina o elezione.

Durante il proprio mandato il delegato deve periodicamente rendere conto agli eletti del proprio operato. Il mandato non può essere troppo lungo, altrimenti il popolo si disabitua a governare se stesso. Generalmente si sceglie la soluzione del mandato solo in casi molto particolari, quando non si può fare diversamente, quando è più semplice o più conveniente fare così, senza che con questo si voglia stabilire alcuna regola di carattere generale.

Il principio della democrazia del popolo è infatti molto chiaro: o la democrazia è diretta o non è. Le eccezioni possono essere tollerate solo a condizione che restino tali.

Stando le cose in questi termini è evidente che la democrazia diretta può essere esercitata solo in porzioni di territorio molto ristrette. Anzi, quanto più il territorio s’allarga tanto meno la democrazia può essere diretta. Se noi diciamo che l’unico potere forte dev’essere il popolo che decide la soluzione dei propri problemi, è evidente che i poteri particolari di determinati gruppi o ceti o classi sociali, devono essere tenuti sotto stretto controllo. Certo, non si può impedire a qualcuno di prevaricare; occorre però assicurare al popolo gli strumenti per potersi difendere.

Il massimo della democrazia e dei suoi poteri decisionali va garantito a livello locale, cioè comunale, ivi incluse le realtà dei quartieri: le circoscrizioni in cui ogni Comune è suddiviso. Il quartiere è, se vogliamo, l’istanza principale della democrazia diretta. Quanta meno democrazia c’è a livello locale tanta più dittatura s’impone a livello nazionale.

Con questo non si vuol sostenere che la democrazia diretta è di per sé migliore di quella delegata. Infatti non bisogna mai dimenticare che parallelamente al concetto di democrazia politica va affermato anche quello di democrazia economica. Senza uguaglianza sociale, anche la democrazia diretta diventa un’espressione vuota di contenuto.

Democrazia popolare significa che è il popolo a decidere le sorti della propria vita, fin nei minimi particolari. Solo così è possibile rendersi conto che una propria azione sbagliata può avere ripercussioni negative sull’intero collettivo e che l’azione giusta di un collettivo può avere ripercussioni positive anche su chi individualmente non l’ha condivisa.

La dittatura della democrazia (II)

Che cos’è il voto? Il voto, specie quello di preferenza per uno specifico candidato, dovrebbe essere una sorta di “patto” tra un elemento forte: il popolo, e un elemento provvisorio: il parlamentare, il cui mandato può essere confermato o revocato.

Nella pratica il voto è soltanto un rituale formale, che serve a confermare un potere politico-parlamentare che agisce separatamente dalla società che dovrebbe rappresentare. Sotto questo aspetto votare un partito o un altro, una coalizione di partiti o un’altra non fa molta differenza. Il voto serve soltanto per ribadire una stretta dipendenza della società nei confronti dello Stato. La dipendenza è spesso rafforzata dal fatto che al momento del voto gli elettori sono costretti a scegliere tra candidati preventivamente decisi dai partiti, quando addirittura non possono neppure scegliere i candidati ma soltanto le coalizioni di appartenenza.

Per la politica dei parlamentari il popolo non è sovrano ma “bue”, e i politici altro non sono che sirene ammaliatrici, che inducono il bue ad accettare i sacrifici più gravosi.

Qual è in genere la giustificazione che i politici danno al fatto che la democrazia può essere solo “delegata”? Il motivo sta nel numero dei componenti di una popolazione, che negli Stati nazionali è ovviamente molto alto. La democrazia infatti è la tipica forma di governo degli Stati nazionali.

Che questi Stati siano centralisti o federalisti, sotto questo aspetto, non fa molta differenza, poiché in nessun caso viene mai messo in discussione il principio della delega. La democrazia ha la scopo di far governare i pochi sui molti. E’ in tal senso una forma di oligarchia, ma con la differenza che al momento del voto non si fanno più differenze di censo, di sesso o altro.

Uno dei principali compiti della propaganda dei media occidentali è proprio quello di far credere che nei propri Stati nazionali la democrazia è un tipo di governo voluto espressamente dalla stragrande maggioranza dei cittadini. Una volontà che si manifesta appunto nel fatto che il popolo va a votare in tutti gli organi dello Stato, da quelli centrali a quelli periferici (da quest’ultimi vanno però escluse le prefetture, le questure, le preture ecc., che sono dirette emanazioni dello Stato).

Dunque che il governo dei pochi eletti sui molti elettori avvenga in una porzione di territorio grande o piccola, locale o nazionale, federata o centralista, significa in sostanza la stessa cosa. In tutte le civiltà antagoniste, basate sullo scontro delle classi sociali, le più importanti delle quali sono gli imprenditori di beni mobili e immobili e i dipendenti salariati e stipendiati, la democrazia parlamentare, delegata o indiretta, è la forma più mistificata della dittatura dei poteri forti.

Generalmente quando in uno Stato centralista si parla di federalismo è perché in periferia i poteri forti dell’economia vogliono rivendicare un maggiore protagonismo politico. E’ una richiesta di maggiore democrazia nei confronti dello Stato centralista, ma nel territorio locale questa esigenza spesso si traduce nell’affermazione di una maggiore libertà di manovra da parte dei padroni dell’economia e della finanza. Il federalismo infatti non mette mai in discussione il sistema capitalistico: “capitalismo” ormai è diventata per tutti una parola tabù.

PROGETTO PER USCIRE DALLA CRISI (II)

Davanti a noi si presenta uno scenario piuttosto oscuro, poiché i nodi stanno per venire al pettine, e non possono essere escluse delle svolte autoritarie di tipo militare. Il capitalismo finanziario, infatti, non crea scompensi solo al di fuori di sé, in quelle zone del pianeta che noi occidentali siamo soliti definire come Terzo e Quarto Mondo, ma anche al proprio interno, cioè nell’ambito metropolitano dello stesso occidente.

Il motivo di ciò sta nel fatto che, essendo il business il principale criterio della vita sociale, l’antagonismo tra gli individui e la corruzione nella gestione delle risorse comuni possono raggiungere livelli inusitati, anche perché è praticamente impossibile, data la proprietà privata di tutti i principali mezzi produttivi, un controllo sull’operato degli industriali, dei manager, degli operatori economici e finanziari.

Cioè nonostante che ancora oggi tutto l’occidente possa avvalersi di uno scambio commerciale profondamente iniquo nei propri rapporti col Terzo Mondo, uno scambio che gli permette di vivere ben al di sopra delle proprie possibilità, l’occidente non sembra essere in grado di autogestire la propria ricchezza, senza provocare immani disastri economici e ora soprattutto finanziari (per non parlare di quelli ambientali).

Stante l’attuale situazione, i paesi del Terzo Mondo dovrebbero cercare, da un lato, di non pagare più i debiti contratti con gli istituti finanziari dell’occidente, e dall’altro di trovare forme di cooperazione tra di loro, onde evitare o almeno attutire le inevitabili ritorsioni dovute ai mancati rimborsi del credito. Questa stessa cooperazione dovrebbe servire anche per farli progressivamente uscire da un mercato internazionale i cui prezzi vengono decisi a prescindere dalla loro volontà, nelle borse del capitalismo avanzato.

In ambito occidentale i lavoratori (che hanno già costatato, sulla loro pelle, l’incapacità industriale di tanti imprenditori e manager, nonché la grave irresponsabilità degli operatori finanziari) dovrebbero seriamente porsi il problema di gestire in proprio le aziende produttive, formando delle imprese cooperative, in cui la proprietà risulti indivisa, mentre tra gestore e proprietario non vi sia alcuna differenza.

Queste imprese collettive, siano esse industriali, agrarie o di servizio, dovrebbero altresì raccordarsi strettamente alle esigenze del territorio in cui operano, in modo da rendere minima la dipendenza dai mercati esteri. Bisognerebbe inoltre, sempre come tendenza progressiva, favorire al massimo, in tutta la popolazione, incentivandola con l’offerta gratuita di lotti di terra da coltivare, l’autoconsumo, cioè quella produzione agricola che permette un minimo di sopravvivenza (si pensi p.es. all’orticoltura).

Quanto ai rapporti tra socialismo e democrazia, occorre decentrare al massimo la funzione dell’amministrazione del servizio pubblico, in maniera tale che il cittadino possa verificare in ambito locale la fattibilità di una gestione collettiva della vita sociale. Socialismo e democrazia si realizzano nella misura in cui i cittadini sono padroni del territorio in cui vivono, cioè nella misura in cui possono constatare che le loro decisioni servono effettivamente a risolvere i problemi.

Gli stessi cittadini, globalmente considerati, vanno ritenuti responsabili della difesa del loro territorio, per cui no ai militari di professione, no ai mercenari, no alla separazione tra cittadini e forze dell’ordine.

In ambito locale tutto va gestito da tutti, e in ogni caso quanto più ci si allontana da questo ambito, tanto più temporanei, limitati, circoscritti a compiti specifici devono essere i poteri che si riconoscono ai propri delegati. La democrazia o è diretta o non è, e se la si vuole indiretta o rappresentativa, bisogna volerla entro parametri ben specifici, tali per cui quella diretta venga salvaguardata nelle sue funzioni essenziali.

L’ultimo aspetto da considerare è, in realtà, il primo in assoluto, la cui mancata soluzione pregiudicherà inevitabilmente la soluzione di tutto il resto. Qualunque stile di vita noi si scelga, deve essere compatibile con le esigenze riproduttive della natura. Se si pensa di poter creare una società a misura d’uomo, dimenticandosi che deve essere anche ecosostenibile, di sicuro si andrà incontro a un nuovo fallimento. Il rispetto dell’ambiente è la misura principale della verità del socialismo democratico.

PROGETTO PER USCIRE DALLA CRISI (I)

Dietro di noi abbiamo un lungo periodo in cui l’uomo è vissuto pacificamente nella comunità democratica primordiale, cui ad un certo punto ha cominciato a contrapporsi la civiltà schiavistica (il “peccato originale” dell’umanità).

Contro questa civiltà hanno cercato di lottare le religioni più significative della storia: ebraismo, buddhismo, cristianesimo, islam, ma senza alcun successo, al punto che i nuovi tentativi di liberazione (rivoluzioni borghesi e soprattutto socialiste) sono avvenuti all’insegna di una religione molto laicizzata o assente del tutto.

Ai nostri giorni esperienze analoghe a quelle del comunismo primitivo sono praticamente ridotte a un nulla, in quanto il sistema di vita borghese ha coinvolto l’intero pianeta, mentre quello di tipo socialista, essendo strettamente vincolato a istituzioni statali, s’è rivelato del tutto fallimentare. Un socialismo burocratico, amministrato dall’alto, non riesce a sviluppare la democrazia e inevitabilmente implode.

Tuttavia, se resta il problema di cercare nuove forme di socialismo, compatibili con la democrazia e non lontane dallo spirito delle esperienze del comunismo primitivo, resta anche il problema di come superare le contraddizioni del sistema capitalistico, le quali, ponendosi a livello mondiale, producono, quando s’acuiscono, effetti devastanti sull’intero pianeta.

Gli Stati borghesi non sono in grado di risolvere in maniera strutturale tali contraddizioni, poiché essi stessi ne sono parte in causa, espressione storica del loro sviluppo. Di fronte al crollo del socialismo reale i paesi capitalisti si sono illusi che il destino del capitale non avrebbe più incontrato ostacoli di sorta, e ciò sembrava trovare ulteriore conferma nella svolta borghese della società cinese, pur in presenza, in questo paese, di un apparato governativo e amministrativo ancora fortemente autoritario.

Ma l’illusione del capitalismo mondiale è stata di breve durata: le contraddizioni questa volta sono scoppiate non tanto sul terreno economico quanto su quello finanziario. Il capitalismo monopolistico di stato, che nella sua fase più evoluta ha una connotazione marcatamente finanziaria, sembra riportarci indietro, ai tempi del crac borsistico del 1929, cui seguì un decennio dopo lo scoppio della II guerra mondiale. Il capitalismo mondiale non ha gli strumenti per risolvere in maniera organica le proprie crisi cicliche, se non facendone pagare le conseguenze ai lavoratori e ai ceti più deboli.

CONTROCORRENTE – sette proposte per cambiare rotta

Tornare all’autoconsumo è possibile senza uscire dal capitalismo? No, non è possibile in alcun modo, poiché le imprese vivono sul valore di scambio e sul plusvalore (lo sfruttamento del lavoro altrui) e si servirebbero delle forze del “loro” ordine per impedire questa inversione di tendenza.

Tuttavia è possibile sfruttare le crisi cicliche del capitale, di cui quella finanziaria oggi è la più grave, per mostrare non solo la gravità delle contraddizioni di questo sistema, ma anche la sua incapacità a risolverle.

Si può cioè approfittare del momento critico per ripensare positivamente i criteri di vita. Quali criteri vanno ripensati?

  • Anzitutto quello del consumismo. La società funziona meglio quanto meno la gente spreca e non quanto più consuma, indipendentemente dagli effettivi bisogni. I consumi vanno razionalizzati e ottimizzati: si acquista il necessario e si evita il superfluo; si acquista ciò che può essere riutilizzato, evitando non solo di disperderlo nell’ambiente, ma, se possibile, anche di riciclarlo per altri usi. Riutilizzare uno stesso prodotto costa meno che riciclarlo. E in ogni caso qualunque reato contro la natura deve rientrare nel diritto penale, oltre che civile. E la pena deve essere sommamente rieducativa, in quanto la natura, come la libertà, è un bene fondamentale per la sopravvivenza del genere umano.
  • In secondo luogo il criterio delle retribuzioni. Una società che permette a milioni di persone (in Italia ben 15 milioni) di vivere con un reddito inferiore a mille euro al mese, mentre poche decine di migliaia fruiscono di stipendi favolosi, che vanno ben oltre le loro necessità quotidiane, è una società destinata soltanto a perenni conflitti sociali, che tendono a paralizzarla. Occorre trovare una media retributiva che permetta a chiunque di vivere dignitosamente; il di più va motivato e non può mai essere preteso contro le esigenze altrui di sopravvivenza.
  • In terzo luogo occorre responsabilizzare i cittadini di tutto quanto li riguarda. Questo significa decentrare progressivamente le funzioni dello Stato verso gli Enti Locali Territoriali. La democrazia da delegata deve diventare sempre più diretta. Tutte le istituzioni vanno gestite anzitutto a livello locale e bisogna lasciare a questo livello il compito di cercare, sulla base della propria indipendenza economica, il compito di cercare intese e convenzioni con altri livelli di partecipazione popolare.
    Quanto più le responsabilità salgono a livello nazionale, tanto più devono essere considerate provvisorie, finalizzate a uno scopo preciso in un tempo determinato. Ogni mandato (politico, esecutivo, legislativo, giudiziario ecc.) deve poter essere revocato in qualunque momento, e ogni delegato ha l’obbligo di fare un rendiconto periodico del proprio operato a chi l’ha eletto.
  • In quarto luogo va data priorità assoluta alle esigenze locali, materiali e culturali. Da un lato quindi sviluppo della produzione per soddisfare bisogni primari; dall’altro valorizzazione delle specificità locali, per l’affermazione dell’identità territoriale. Se la comunità locale vive la democrazia sociale, non ci sarà antagonismo con altre comunità locali, ma anzi collaborazione, nella consapevolezza che non ci può essere sviluppo e sicurezza se non nella reciprocità.
    Questo comunque significa due cose: che la comunità acquista sui mercati soltanto ciò che non è in grado di produrre e che sul piano culturale essa è preposta a valorizzare proprie tradizioni e linguaggi.
  • In quinto luogo i debiti vanno pagati da tutti, in maniera proporzionale alle proprie entrate, sempre che questo non debba pregiudicare la propria esistenza in vita. Ogni Regione deve accollarsi i debiti dello Stato, se vuole ottenere il decentramento delle funzioni statali. Tutti i cittadini sono responsabili del debito nazionale (anche quelli che indirettamente non hanno fatto nulla per impedirlo), e chi ha contribuito maggiormente a crearlo, non può più esercitare alcuna funzione dirigenziale o manageriale. Chi ha operato in maniera esplicitamente fraudolenta, contribuendo personalmente al fallimento di imprese, banche o istituzioni, se non vuole subire sanzioni penali, deve restituire il maltolto o comunque impegnarsi a recuperarlo.
  • In sesto luogo la difesa militare della comunità locale è compito della comunità stessa. Bisogna porre fine agli eserciti di professionisti o di mercenari. Tutta la popolazione va tenuta in periodica esercitazione per la difesa del proprio territorio. I servizi segreti vanno aboliti.
  • In settimo e ultimo luogo vanno aperti tutti gli archivi, al fine di permettere ai ricercatori e agli storici di far luce sul nostro passato.

Prospettive di ricerca

Una divisione del lavoro ha senso quando non esiste divisione tra lavoro e capitale, cioè quando i legami sociali dei produttori sono molto forti, altrimenti essa si trasformerà, inevitabilmente, in una fonte interminabile di soprusi: sfruttamento del lavoro altrui, abuso delle risorse naturali, sovrapproduzione di merci, impiego della scienza e della tecnica per perpetuare l’alienazione dominante (anche quando si pensa di attenuarne gli effetti) ecc.

Nel capitalismo la divisione del lavoro arricchisce pochi a svantaggio dei molti (all’interno di una stessa nazione e fra nazioni diverse). Guardando cosa essa ha prodotto in questa formazione sociale, vien da rimpiangere il Medioevo, in cui dominava l’autonomia del produttore diretto, che era polivalente, cioè indipendente dal mercato per le cose essenziali.

Solo che tale modo di produzione di per sé non può essere sufficiente per costituire un’alternativa efficace al capitalismo. Poteva costituire un’alternativa quando il capitalismo era in fieri, e naturalmente solo a condizione che il sistema dell’autoconsumo fosse in grado di eliminare la piaga del servaggio.

Oggi, perché l’autoconsumo possa costituire un’alternativa, occorrerebbe che il capitalismo subisse un crollo totale per motivi endogeni, ma è dubbio che ciò avvenga in tempi brevi. Il capitalismo si regge sullo sfruttamento del Terzo Mondo: finché le colonie e le neocolonie non si emancipano anche economicamente, il capitalismo non si accorgerà mai di non poter autosussistere.

Quando una formazione sociale si regge sullo sfruttamento del lavoro altrui, si autoriproduce solo fino a quando i lavoratori si lasciano sfruttare: il fatto che ad un certo punto sia nata l’esigenza del colonialismo sta appunto a dimostrare che i lavoratori europei non avevano intenzione di lasciarsi sfruttare in eterno. Ora tale decisione devono prenderla anche i lavoratori del Terzo Mondo, e auguriamoci che, quando la prenderanno, i lavoratori dei Paesi occidentali capiscano che quello sarà il momento buono per realizzare l’internazionalismo proletario contro il capitalismo mondiale.

Va comunque assolutamente escluso che il lavoro polivalente del produttore autonomo possa costituire un’alternativa quando esso viene sottoposto a un qualsivoglia regime di servaggio. “Autonomia” non può solo voler dire “indipendenza dal mercato”, ma deve anche voler dire “libertà” da qualunque forma di schiavitù. Si badi: non da qualunque forma di “dipendenza”, ma da qualunque forma di “dipendenza” in cui esista un “padrone” e un “servo”, una posizione precostituita di dominio e una di subordinazione.

E’ stata un’illusione della borghesia quella di credere che la libertà di un individuo potesse realizzarsi emancipandosi da qualunque dipendenza dal collettivo. Gli uomini devono dipendere dalle leggi che loro stessi, democraticamente, si danno, e devono altresì dipendere da molte leggi della natura, affinché sia salvaguardato l’equilibrio dell’ecosistema.

Se nel Medioevo non ci fosse stato il duro servaggio e l’oppressione culturale del clericalismo, forse il capitalismo non avrebbe trionfato così facilmente. Gli storici, in tal senso, dovrebbero verificare la tesi secondo cui l’edificazione del capitalismo è avvenuta in maniera relativamente facile nell’Europa occidentale, proprio perché qui il servaggio era molto più opprimente che nell’Europa orientale.

Nei confronti del Medioevo il marxismo ha emesso giudizi unilaterali, dettati da una sorta di pregiudizio anticlericale e antirurale. Si è condannato, col servaggio e il clericalismo, anche l’autonomia economica del produttore diretto, cioè il primato del valore d’uso sul valore di scambio, il significato sociale della comunità di villaggio, i concetti di autogestione e autoconsumo, ecc.

Il marxismo si è lasciato abbacinare dal fatto che, con l’impiego della rivoluzione tecnologica e con una forte divisione del lavoro, il capitalismo è riuscito ad aumentare a dismisura le potenzialità delle forze produttive. In effetti in quest’ultimo mezzo millennio l’umanità ha fatto passi da gigante sul piano produttivo e tecnologico.

Tuttavia, molti di questi passi, che si ritengono “in avanti”, sono stati pagati con terribili passi indietro (guerre mondiali, distruzione dell’ecosistema, morte per fame ecc.), al punto che oggi ci si chiede se davvero sia valsa la pena realizzare tanti progressi quando il risultato finale viene considerato soddisfacente solo per un’infima parte dell’umanità. Il marxismo ha avuto due torti fondamentali:

  1. quello di appoggiare un qualunque sviluppo capitalistico contro la rendita feudale, senza preoccuparsi di trovare nel sistema dell’autoconsumo le possibili alternative al servaggio;
  2. quello di tollerare i guasti provocati dal progresso tecno-scientifico, illudendosi di poterli ovviare sostituendo il profitto privato col profitto statale.

Detto altrimenti, lo storico dovrebbe chiedersi se il superamento del servaggio e del clericalismo doveva necessariamente comportare il pagamento di un prezzo così alto, ovvero se la nascita del capitalismo sia stata davvero un evento inevitabile della storia o se invece essa è dipesa dal fatto che nel corso del Medioevo gli uomini non fecero abbastanza per cercare un’alternativa alle contraddizioni antagonistiche del feudalesimo. Il capitalismo è forse diventato inevitabile a causa di questa mancata alternativa?

Se c’era la possibilità di una diversa soluzione, allora dobbiamo rimettere in discussione i giudizi negativi espressi dai teorici liberali e marxisti nei confronti del sistema economico basato sull’autoconsumo. Se vogliamo infatti creare un socialismo veramente democratico, di fronte a noi ci sono due strade (che possono anche essere seguite contemporaneamente, anche se di necessità una dovrà prevalere sull’altra):

  1. l’autoconsumo del produttore diretto, polivalente, che ha bisogno del mercato solo per cose che non può assolutamente produrre o reperire come risorsa naturale (cose di cui, in ultima istanza, può anche far meno per poter vivere). Ciò implica ch’egli sia giuridicamente e politicamente libero, non soggetto ad alcuna coercizione extra-economica. Naturalmente le sue forze produttive saranno sempre limitate (come d’altra parte i suoi bisogni), ma la stabilità di tale metodo produttivo è assicurata, a meno che essa non venga minacciata da catastrofi naturali, nel qual caso dovrebbe farsi valere la solidarietà del collettivo, cui il produttore appartiene. Ovviamente la solidarietà va coltivata per tempo, in quanto essa non può nascere automaticamente; ed è questo in un certo senso il limite di tale sistema produttivo: il produttore diretto tende a rivolgersi alla forza del collettivo solo nel momento del bisogno;
  2. una collettività o una società basata sulla divisione del lavoro, ma in cui l’uguaglianza dei lavoratori sia assicurata dalla democrazia a tutti i livelli. Quanto più è forte la divisione del lavoro, tanto più forti devono essere i legami sociali, poiché chi non rispetta le proprie funzioni incrina tutto l’apparato produttivo. Un sistema di tal genere deve puntare molto sui legami che possono realizzare i valori etico-sociali e culturali.

Ora, considerando il forte individualismo esistente in Europa occidentale (per non parlare degli USA), la seconda soluzione pare la più difficile da realizzare, poiché essa implica una certa maturità socio-culturale o comunque una certa disponibilità interiore a partecipare ai problemi comuni.

Europa occidentale e USA potrebbero adottare il socialismo democratico basato sulla divisione del lavoro, grazie all’aiuto di forze sociali straniere, provenienti da Paesi che conoscono il valore del collettivismo. Tali forze però dovrebbero essere considerate “paritetiche” e non dovrebbero essere numericamente “minoritarie”.

In ogni caso sarà impossibile per l’Occidente conservare gli attuali livelli di produttività, accettando il collettivismo proprio dei Paesi non-capitalistici.