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Autoconsumo e baratto

Supponi che noi due si voglia fare un baratto tra cose usate: tu mi dai il tuo cellulare di ultima generazione, io ti do il mio orologio automatico, che si carica a polso.

Qual è la prima cosa che pensi di fronte a questa proposta? La prima cosa è ovviamente la valutazione di mercato, cioè il valore di scambio di entrambi i prodotti. Metti in rapporto i due oggetti al valore monetario deciso dal mercato degli oggetti usati.

Viene istintivo fare una cosa del genere proprio perché siamo abituati a far coincidere il valore di un qualunque bene col suo prezzo. Noi non conosciamo il valore effettivo, intrinseco, oggettivo, di una merce finché il mercato non ci indica il suo prezzo, cioè il suo valore nominale, venale, monetario.

Peraltro noi sappiamo bene, per esperienza diretta, che i prezzi di mercato sono la cosa più irrazionale del mercato, in quanto alla loro formazione contribuiscono fattori che per noi consumatori sono imponderabili, indipendenti dal comportamento che possiamo avere facendo degli acquisti.

P.es. non è sempre vero che quanto più è alta la domanda di un bene, tanto più è alto il suo prezzo se l’offerta non è in grado di soddisfarla. Come non è sempre vero che, a fronte di una considerevole offerta, i prezzi possono calare se la domanda è scarsa. Questo perché vi sono sempre altri fattori che incidono sulla volontà dei produttori di merci e quindi sulla formazione dei prezzi, che restano spesso ignoti ai comuni consumatori. A volte quando una merce, materiale o immateriale, è quotata in borsa, basta fare delle semplici dichiarazioni che la riguardano, per avere immediatamente delle impennate o dei crolli rovinosi della sua quotazione.

Consideriamo inoltre che al giorno d’oggi i consumatori agiscono su mercati ove dominano prevalentemente i prezzi di monopolio. Per avere prezzi scontati bisogna frequentare i mercati delle piazze urbane o aspettare i saldi o cercare particolari promozioni, offerte speciali per i nuovi clienti, oppure affidarsi completamente alla vendita abusiva, truffaldina.

Questo per dire che, a parità di condizioni estrinseche, esteriori, la concorrenza incide assai poco sulla formazione dei prezzi. Anzi, è più facile che tra i monopoli si formino dei cartelli, cioè dei patti sotto banco, quando addirittura, di fronte alla concorrenza straniera, non si provvede con forme varie di protezionismo.

Per noi consumatori si tratta semplicemente di porre una differenza tra mercato legale e mercato illegale, ovvero tra mercato in cui esiste una tassazione regolare e mercato in cui questa è minore (come p.es. a San Marino o in certi paesi esteri), o addirittura nessuna tassazione, come nel cosiddetto “mercato nero” o clandestino, quello degli oggetti non originali o contraffatti o addirittura trafugati (il mercato dei ricettatori).

Ora però immagina che, per un qualsivoglia motivo, la moneta non esista affatto: sono crollate tutte le borse, è scoppiata una guerra mondiale, gli Stati hanno fatto bancarotta, oppure, più semplicemente, perché vige solo il baratto, non essendo stato ancora inventato un equivalente astratto e universale per tutte le merci, quale può essere appunto il denaro (soprattutto nella forma della banconota o della carta di credito).

Supponi dunque di non poter stimare economicamente il mio orologio sulla base del denaro: quale altro parametro valutativo sceglieresti? Nel corso della storia del genere umano i parametri sono stati tantissimi: dalle conchiglie ai semi di cacao, ecc. Per le civiltà basate sullo schiavismo l’elemento di paragone più importante era l’oro o l’argento (ma anche il rame o il bronzo, per gli oggetti di minor pregio). Oggi tra i metalli pregiati di uso domestico abbiamo anche il platino (p.es. nei gioielli).

Ma supponi che non esista neanche questa possibilità, in quanto l’oro e l’argento vengono più che altro usati per motivi estetico-ornamentali e non economici, come accadeva tra le popolazioni primitive, che apprezzavano l’oro perché duttile, malleabile, lucente e perché non invecchia mai. Se non c’è neanche questo metro di paragone, come fai a valutare il mio orologio?

Non esistendo un vero e proprio valore di scambio per le merci, non ti resta che puntare al suo valore d’uso. Sei disposto a barattare il tuo cellulare col mio orologio semplicemente perché pensi che ti serva di più. Tuttavia, se fino adesso hai fatto senza, perché pensi che ti possa servire? Devi stare attento a questa mia proposta di scambio, perché al bene che ti offro potresti farci l’abitudine e, in tal caso, perderesti la tua autonomia. E’ stato proprio in questa maniera che s’è realizzata la transizione dal baratto alla moneta.

Devi inoltre pensare a una cosa non meno importante: supposto che il mio orologio ti serva davvero, come fai a essere sicuro di fare uno scambio vantaggioso per te? Tu non puoi affatto saperlo se non conosci esattamente il tempo che è stato impiegato per produrre il mio orologio (e nel tempo ci puoi mettere dentro la fatica e l’intelligenza di reperire i materiali adatti, di assemblarli nel modo migliore, di presentarli al pubblico ecc.).

Se tu conosci esattamente tutte queste cose, allora vuol dire che, almeno in teoria, tu stesso potresti produrre il mio orologio; cosa che non fai probabilmente perché ami applicarti ad altri oggetti, le cui eccedenze vuoi scambiare con oggetti che non possiedi, tra cui appunto gli orologi automatici. Quel che è certo è che se non conosci il tempo socialmente necessario per produrre un determinato oggetto, tu rischi di rimetterci sempre negli scambi con quel medesimo oggetto.

Ora supponiamo che tu conosca l’entità effettiva del valore del mio orologio, a quali condizioni saresti disposto a compiere una transazione per te svantaggiosa sul piano economico? Ce n’è più di una. Io potrei essere tuo amico o diventarlo dopo esserci combattuti in battaglia; potrei essere un tuo parente o diventarlo in seguito a un matrimonio tra le rispettive famiglie. Potresti farmi un favore perché sai di essere, per qualche motivo, in debito con me, oppure perché speri che io possa essere più indulgente nei tuoi confronti. Insomma saresti disposto ad accettare una transazione materialmente non equa a condizione di poter ottenere dei vantaggi di tipo etico.

Sia come sia, ti rendi facilmente conto che se esistesse l’autoconsumo la transazione sarebbe più semplice e sicura, proprio perché ad entrambi sarebbe garantita l’indipendenza. Lo scambio lo faremmo solo con le rispettive eccedenze e solo per acquistare cose effettivamente utili, cioè dei beni che potremmo produrre anche noi e che non facciamo solo perché sappiamo che vicino a noi qualcun altro lo fa, non perché vi sia costretto da qualcosa, ma perché ne ha voglia, ne ha l’interesse, ne ha le competenze e perché è convinto che, facendolo, otterrà in cambio qualcosa di non meno utile e vantaggioso, per sé o per la sua famiglia o per la comunità in cui vive.

Tuttavia, perché l’autoconsumo e il baratto funzionino in modo adeguato, occorre che tra produttore e acquirente non vi sia molta differenza di stile, di comportamento, di modus vivendi e, prima di tutto, occorre che esista, in maniera generalizzata, la proprietà collettiva dei principali mezzi produttivi.

Il virus della borghesia

La borghesia che si è sviluppata in Europa a partire dal Trecento (in Italia a partire dal Mille, con la nascita dei Comuni, che già nel Duecento erano così forti da impedire agli imperatori tedeschi di far valere i loro diritti feudali) in che cosa viene considerata “progressiva” dagli storici? Semplicemente nel fatto ch’essa riuscì a ottenere, attraverso il commercio e l’industria, ciò che prima poteva essere ottenuto solo attraverso la terra e le armi.

Ma davvero possiamo dire che la borghesia sostituì l’uso della rendita con quello del profitto? Davvero rimpiazzò l’uso delle armi per ottenere la terra con l’uso del denaro per ottenere ricchezze e prestigio? O non è piuttosto vero ch’essa si limitò ad abbinare uno stile di vita a un altro?

Davvero la borghesia può essere considerata una classe “rivoluzionaria”? Una cosa dovrebbe essere considerata “rivoluzionaria” quando elimina o sostituisce quella precedente, non quando le si affianca, limitandosi a ridurne il peso o il volume.

Per raggiungere il suo obiettivo, la borghesia, più che altro, s’è comportata con una buona dose di opportunismo e di cinismo; ha sapientemente dissimulato le proprie intenzioni; ha fatto dell’ambiguità un vero modello di comportamento. Ha saputo approfittare di tutte le contraddizioni della nobiltà e del clero cattolico, lacerati tra un idealismo astratto e un’immoralità concreta, soltanto per produrre nuove contraddizioni, strettamente legate all’uso dei capitali.

Davvero l’umanità aveva bisogno di vivere questa esperienza per emanciparsi dalla corruzione dei sovrani feudali? E’ stato davvero un “progresso” che una classe sociale potesse arrivare a un’analoga corruzione seguendo strade diverse da quelle percorse da chi l’aveva preceduta nella scala che porta al potere economico e politico?

Stando ai classici del socialismo scientifico, Marx ed Engels, sì, il percorso della borghesia era necessario per emanciparsi dal feudalesimo; stando invece al rivoluzionario Lenin, no: si poteva benissimo passare dal feudalesimo al socialismo democratico, saltando la transizione borghese.

Sono due posizioni completamente diverse, e oggi, alla luce del crollo del socialismo autoritario, dovremmo pensare che, in definitiva, avevano ragione Marx ed Engels.

Teoricamente, in realtà, aveva ragione Lenin, ma l’evoluzione del leninismo verso lo stalinismo ha dato ragione a Marx (e indirettamente a Trotski).

Lo stalinismo infatti è stato la testimonianza, in forme diverse da quelle del capitalismo occidentale, che lo stile di vita borghese può influenzare le masse più di quanto non si creda. Lo stalinismo è stato il tentativo d’impedire alla borghesia di svilupparsi autonomamente, utilizzando, nel fare questo, alcuni strumenti che la stessa borghesia s’era data per imporsi, e cioè lo Stato, le forze armate e di polizia, i servizi segreti, la burocrazia, l’ideologia politica, la parvenza del diritto, l’istruzione di massa, la scienza e la tecnica al servizio del potere, l’informazione manipolata ecc.

Nello stalinismo è mancata soltanto la possibilità che si sviluppasse una classe sociale particolare, frutto di un uso privatistico del denaro (che è poi quello che sta permettendo oggi il socialismo cinese).

Si sviluppò invece la figura del burocrate statale deresponsabilizzato e dell’intellettuale di partito spersonalizzato, ch’erano, nella sostanza, delle figure borghesi, dipendenti da questa tipologia di classe. La tradizione collettivistica, che s’era conservata nella decadenza del feudalesimo est-europeo, aveva ostacolato lo sviluppo della borghesia “economica”, ma non era riuscita a impedire lo sviluppo di quella “politica e amministrativa”.

Tuttavia i fatti hanno dimostrato che se si sviluppa una borghesia del genere, più intellettuale che imprenditoriale, diventa poi impossibile impedire che si sviluppi anche l’altra borghesia, che nell’Europa occidentale esiste da almeno un millennio.

La storia dunque cos’ha dimostrato? Semplicemente che, una volta nato, lo stile di vita borghese è come un virus che si propaga molto velocemente; che bisognerebbe eliminarlo con decisione appena lo si intercetta; che è un virus molto pericoloso, in quanto muta continuamente le sue sembianze; che è un virus in grado di vivere in maniera latente e inerte anche dopo averlo tenacemente combattuto, e che alla prima occasione può venire allo scoperto, cogliendo del tutto impreparato chi l’aveva combattuto.

Per tenere sotto controllo questo virus, impedendogli di svilupparsi e di diffondersi, ci vogliono alcune condizioni fondamentali, che non possono essere imposte dall’alto, poiché una qualunque imposizione fa il gioco del virus.

La prima condizione è che si accetti di vivere un’esperienza collettivistica basata sull’autoconsumo e sulla democrazia diretta. Non solo cioè ci si deve limitare a consumare ciò che effettivamente si produce in maniera autonoma, evitando che si formino delle categorie di persone che, col pretesto di amministrare le eccedenze, evitano di lavorare; ma bisogna anche che ogni decisione da prendere su come ottenere dalla terra i prodotti del nostro sostentamento, sia frutto di una comune volontà, senza interferenze da parte di forze esterne al collettivo.

Posto questo, occorre che si abbia piena consapevolezza che nei confronti della natura non si può avere un atteggiamento di sfruttamento. La natura va rispettata nelle sue esigenze riproduttive, che sono le stesse che permettono agli uomini di esistere. Qualunque cognizione scientifica o uso della tecnologia non può andare oltre un certo limite, perché al di là di questo esiste solo autodistruzione.

Che ne è dei rapporti tra socialismo e religione?

Dopo il crollo del muro di Berlino e dell’Urss, il tema del rapporto tra socialismo e religione, in Europa occidentale, sembra essere totalmente scomparso. Eppure abbiamo ancora oggi il più grande partito comunista del mondo, quello cinese, che gestisce un sesto dell’umanità. Abbiamo Cuba che resiste imperterrita al più grande embargo della storia americana (e forse della storia in generale). Abbiamo altri paesi del sud-est asiatico che hanno chiaramente conservato tracce del più recente socialismo; per non parlare del pericoloso autoritarismo (sedicente comunista) della Corea del Nord. E che dire di quei paesi che al loro interno hanno porzioni di territorio in cui le comunità locali vivono reminiscenze di socialismo ancestrale, pur senza professarne l’ideologia?

Questo per dire che dal punto di vista mondiale non ci sarebbero tanti motivi per mettere una pietra sopra il tema suddetto.

Dai tempi del socialismo utopistico ad oggi i progressi fatti sul piano della laicità sono stati enormi: dal concetto di Stato laico alla secolarizzazione dei costumi e degli stili di vita.

Nonostante le aberrazioni del cosiddetto “socialismo reale”, l’idea di emanciparsi progressivamente dalla superstizione e dal clericalismo è andata avanti; anzi si può dire che, oltre alla scoperta dei diritti tipicamente “sociali” (lavoro, assistenza, previdenza, istruzione, sanità, sicurezza…), il maggior contributo allo sviluppo dell’umanità il socialismo l’abbia dato proprio nel campo della laicizzazione (la quale, si badi bene, non può essere confusa con l’ateizzazione gestita dallo Stato).

Col tempo abbiamo capito che “Stato laico” vuol semplicemente dire “aconfessionale”, cioè indifferente alle religioni, anche se le istituzioni non possono restare “neutrali” di fronte ai tentativi d’ingerenza clericale nelle leggi parlamentari.

Il miglior Stato che possa favorire la libertà di coscienza è appunto quello “laico”, che in Italia, come noto, non esiste, a motivo della presenza dell’art. 7 della Costituzione, che riconosce un privilegio fondamentale alla chiesa romana, in virtù del Concordato e dei Patti Lateranensi.

Il futuro socialismo democratico (perché comunque di “socialismo” dobbiamo parlare, non potendo buttar via acqua sporca e bambino) non dovrà in alcun modo creare uno “Stato ateo”, né tentare di separare la chiesa dalla società civile. Ognuno dovrà essere lasciato libero di credere nella religione che vuole, e ogni credente dovrà sforzarsi il più possibile, quando vorrà opporsi a determinate leggi statali, di farlo semplicemente in quanto cittadino, senza chiamare in causa i contenuti della propria fede.

In occidente è finito da un pezzo il periodo in cui era necessario opporsi a un’idea religiosa con un’altra idea religiosa, o quello in cui si permetteva alla religione di avere una propria presenza politica (teocrazia, ierocrazia, integralismo della fede, teologia politica ecc.). Solo in Italia si hanno ancora dubbi al riguardo.

L’umanità procede verso una sempre più grande laicizzazione della vita sociale, pur in mezzo a errori madornali, dalle conseguenze spesso spaventose. Tali errori sono stati compiuti proprio perché s’è capito che non basta la laicità per rendere migliore la vita: occorre anche la giustizia. E in questo campo, essendo gli uomini da millenni abituati all’antagonismo sociale, ovvero ai conflitti di classe, siamo ancora lontanissimi dall’aver trovato una strada davvero praticabile.

Si pensi solo al fatto che se, per l’affermazione dell’umanesimo laico oggi ci accontentiamo di un regime di separazione tra chiesa e Stato, tale separazione non è affatto sufficiente per garantire la realizzazione di un socialismo davvero democratico.

I migliori classici del socialismo hanno infatti sempre sostenuto che parlare di “Stato democratico” è una contraddizione in termini, in quanto l’obiettivo finale prevede l’autogestione delle risorse e dei bisogni collettivi.

Come uscire dal circolo vizioso del sistema

Il capitalismo funziona bene quando il tasso di sfruttamento del lavoro è molto elevato. Esattamente come lo schiavismo funzionava bene quando, in seguito alle guerre vittoriose, era molto elevato il numero degli schiavi sul mercato (questo spiega perché i Romani crearono la loro ricchezza sotto la Repubblica senatoriale e si limitarono a gestirla sotto l’Impero dittatoriale).

Se le guerre non sono più vittoriose o se ci si deve limitare a una mera strategia difensiva, oppure se gli schiavi di ribellano, o se cominciano a rendersi autonome le colonie (che i Romani chiamavano province) o a rivendicare sempre più diritti, le cose non possono funzionare più come prima.

Oggi dobbiamo dire lo stesso nei confronti delle rivendicazioni salariali degli operai e degli impiegati o nei confronti della volontà di emergere dei paesi del Terzo Mondo. Il capitale non riesce più a sfruttare come prima, al punto che qualcuno comincia a rimpiangere i tempi in cui c’era più dittatura.

D’altra parte quando c’è antagonismo sociale non si può vincere in due: uno deve per forza perdere. Darwin, quando pensava al mondo animale, chiamava questo processo “selezione naturale” e la definizione, applicata poi agli “umani”, ha avuto molta fortuna.

Gli imprenditori oggi sono come i generali romani di una volta, che coi loro eserciti andavano in guerra per fare fortuna. Poi, quando l’avevano fatta, diventavano senatori, ricchi latifondisti, governatori di province, alti funzionari, oppure addirittura imperatori.

Oggi non si ha bisogno di fare guerre di tipo militare: è sufficiente farle con le armi dell’economia e della finanza. Tra i Romani e noi ci sono di mezzo le tecnologie, l’uso capitalistico del denaro e anche il fatto che il lavoratore gode della libertà personale, quella formale di tipo giuridico.

Le ferite che ci lecchiamo non sono più quelle procurate da una spada, ma dall’aumento dei prezzi, delle tariffe, dei tassi sui mutui, delle imposte dirette e indirette, delle perdite in borsa, dei debiti, degli affitti e soprattutto sono procurate dal fatto che i salari e gli stipendi non riescono a tenere il passo di tutte queste cose.

Oggi un imprenditore sa bene che se la manodopera non viene sfruttata al massimo, rischia di dover chiudere (eventualmente trasferendosi in quei paesi dove il costo del lavoro è irrisorio). Questo perché deve sostenere spese sempre più ingenti nei macchinari, nell’amministrazione, nelle tangenti al potere politico e criminale, nelle strategie di marketing, ecc.

La concorrenza li obbliga a uno stress insostenibile, a dei rischi inaccettabili. La legge della caduta tendenziale del saggio del profitto – che Marx elaborò nel III libro del Capitale e che non ebbe mai il tempo di approfondire – li spaventa, perché, pur non conoscendola, la possono constatare abbastanza facilmente. Ecco perché tendono a delocalizzare le loro ricchezze dai paesi più avanzati a quelli meno, oppure dall’economia alla finanza, dove hanno problemi più facili da affrontare.

Il capitalismo ha bisogno di avere situazioni di precarietà sociale, in cui la gente è disposta a lavorare per un salario minimo. Situazioni del genere si verificano quando un paese entra in guerra, cioè quando parte della ricchezza sociale di una nazione viene distrutta molto velocemente. Le guerre infatti sono periodiche in questo sistema. D’altra parte quando i debiti sono talmente grandi che per potervi in qualche modo far fronte bisogna per forza impoverirsi, è relativamente facile che da una situazione del genere si passi all’esigenza di dichiarare guerra a qualcuno, magari anche solo per scongiurare il rischio di una guerra civile interna.

Purtroppo per noi il sistema ci ha insegnato che solo quando le cose sono sufficientemente devastate, si può ricominciare a sperare che la situazione migliori. Si arriva a un punto oltre il quale non si può andare avanti e, se si vuole sopravvivere con i medesimi criteri e metodi, bisogna prima distruggere buona parte della ricchezza collettiva.

E’ come passare da un mazzo di 104 carte a uno di 52 per poter continuare a giocare. Ci vuole una specie di peste bubbonica, come quella che nel Trecento eliminò un terzo della popolazione europea. Fu proprio la peste che accelerò la trasformazione delle Signorie italiane in Principati: cosa resa possibile, naturalmente, anche a causa della scarsa combattività del mondo del lavoro, il cui apice in Italia fu raggiunto col Tumulto dei Ciompi a Firenze, nel 1378.

Questo meccanismo infernale che ha il capitalismo, di autodistruggersi parzialmente per poi rinascere come l’Araba fenice, andrebbe superato una volta per tutte. L’unico modo per poterlo fare è noto da molto tempo: togliere agli imprenditori e a tutti i gestori dell’economia finanziaria il potere di decidere da soli quali debbano essere i criteri con cui vivere la vita.

Bisognerebbe però precisare, a scanso di equivoci, che non può più essere considerato sufficiente togliere al capitale la proprietà degli strumenti produttivi e finanziari, senza ripensare completamente gli stili di vita. E, in tal senso, non dobbiamo dare per scontato l’utilizzo delle stesse tecnologie del capitalismo, seppur gestite da lavoratori-proprietari.

Dobbiamo tenerci pronti o a far saltare tutto il sistema (e non solo una sua parte), o ad approfittare delle sue debolezze quando sarà costretto a saltare da solo per potersi autorigenerare. Se non approfitteremo di quel momento favorevole, stiamo pur certi che il capitale farà pagare al lavoro le conseguenze della propria crisi, partendo ovviamente dai ceti più deboli. La crisi infatti non è di crescita (quella che permette ai lavoratori, col tempo, di migliorare le loro condizioni), ma solo di autoconservazione. Sarà un bagno di sangue soprattutto per chi ha già il corpo piagato.

Ecco perché sin da adesso dovremmo chiederci come uscire da questo inferno – che è in fondo un assurdo circolo vizioso -, partendo dai criteri di soddisfazione dei bisogni primari quotidiani. Se non recuperiamo un rapporto stretto, diretto, con la natura, se non ci riappropriamo di ciò che costituisce la base materiale della nostra esistenza, sottraendola a una gestione anonima, eterodiretta, incontrollabile (quale quella che si verifica negli attuali mercati di beni e servizi), noi saremo condannati in eterno a ripetere i nostri errori.

Solo con l’autogestione completa di un territorio ha senso parlare di democrazia. “Esta selva selvaggia e aspra e forte, / che nel pensier rinnova la paura”, non può essere vinta coi metodi e mezzi tradizionali. Bisogna fare una rivoluzione copernicana del pensiero, in virtù della quale l’uomo possa finalmente camminare coi propri piedi e non al guinzaglio di qualcuno.

Il fatto è purtroppo che noi occidentali, così abituati a sentirci onnipotenti, non riusciremo mai ad accettare un rapporto paritetico con la natura, a meno che delle gravissimi catastrofi non ci costringano a farlo. Forse l’unico momento in cui in Europa siamo stati capaci di questo, da quando sono sorte le civiltà antagonistiche, è quello che i manuali scolastici definiscono col termine di “epoca buia”, e cioè l’alto Medioevo. Ma in Europa son dovuti entrare i cosiddetti “barbari” per insegnarci a recuperare con la natura un rapporto equilibrato.

Tuttavia, già a partire dal Mille avevano ripreso, in Italia, un rapporto di sfruttamento delle risorse naturali, analogo a quello di epoca greco-romana. A partire dal Mille sono state tantissime le catastrofi che l’Europa ha subìto (innumerevoli guerre, terribili epidemie, carestie, devastazioni ambientali…), eppure non s’è mai avuta la forza d’invertire la marcia.

In un millennio la borghesia non solo è diventata potentissima, approfittando spesso proprio di quelle catastrofi, ma, quel che è peggio, è riuscita a diffondersi in tutto il pianeta, come un gigantesco virus. Lo sviluppo della borghesia capitalistica – che ha avuto il suo esordio proprio in Italia – è stata la più grande catastrofe dell’umanità. E ora che il testimone sta per essere preso da colossi numerici come Cina e India, il peggio, molto probabilmente, deve ancora venire. E nuovi “barbari” che tornino a insegnarci a vivere non se ne vedono all’orizzonte…

Per una democrazia compiuta

E’ possibile farsi una rappresentazione della democrazia compiuta? O bisogna limitarsi a considerarla una semplice aspirazione da realizzarsi in un futuro imprecisato? Se partissimo dal presupposto che per una democrazia compiuta non ci può essere alcuna evidenza che s’imponga da sé, forse il futuro potrebbe iniziare da subito.

Dovremmo cioè partire dall’idea che non c’è nessun obbligo da rispettare se non quello della libertà di coscienza, che non è neppure un dovere ma un piacere. Se tutti amassero rispettare la coscienza, sapendo che questa è la fonte di ogni libertà, avremmo posto la pietra più importante dell’intero edificio della democrazia.

Il potere di fare le cose, di crearle o di trasformarle, dovrebbe essere messo in relazione alla capacità di rispettare la libertà di coscienza. La scienza dovrebbe essere completamente subordinata alla co-scienza, e questa non dovrebbe essere soltanto una prerogativa dell’individuo singolo, ma anche un fenomeno collettivo, come quando nel Medioevo chiedevano al popolo di confessare pubblicamente le proprie colpe, per essere assolto come popolo.

Infatti la migliore coscienza delle cose è quella che si manifesta in un collettivo, all’interno del quale ci si può confrontare. Questa è la prima regola fondamentale della democrazia: rispettare collegialmente la libertà di coscienza.

Il modo migliore per rispettare questa libertà è quello di compiere delle azioni di cui si è personalmente responsabili. Non può esistere, in campo etico e sociale, la delega di ruoli e funzioni, se non in casi eccezionali e per un tempo molto limitato. Noi dovremmo avvertire con ansia la mancanza di democrazia e non limitarci a opporre all’autoritarismo dei governi in carica il nostro anarchico individualismo.

Il singolo dovrebbe sentirsi direttamente responsabile delle proprie azioni non solo come singolo, ma anche in quanto appartenente a un collettivo. Dovrebbe diventare una nostra seconda natura il principio per il quale quando un singolo sbaglia, sbaglia l’intero collettivo, poiché il collettivo ha dimostrato di non saper prevenire gli errori. Ognuno quindi dovrebbe essere responsabile delle proprie azioni due volte: come singolo e come membro di un collettivo.

Tuttavia un collettivo è davvero responsabile solo se è in grado di autogestirsi, cioè solo se è padrone delle proprie risorse, e non dipende da risorse altrui o da altri collettivi. Se c’è dipendenza, dev’essere reciproca e non sulle cose essenziali, quelle che permettono di vivere.

Se un collettivo non è in grado di autogestirsi, va aiutato e messo nelle condizioni di poterlo fare. Non si può utilizzare la scienza per sottomettere quei collettivi che non ne dispongono allo stesso livello. In una democrazia compiuta lo sfruttamento delle risorse altrui dovrebbe essere considerato vietatissimo, proprio in quanto costituisce, immediatamente, una violazione della libertà di coscienza.

Ora, che succederà nei casi in cui risulterà poco chiaro se la coscienza è stata o no violata? Se ogni decisione viene presa da un collettivo, all’interno di questo le persone più autorevoli sono necessariamente quelle con più esperienza. Non ci sono altri criteri. Il secondo criterio infatti lo conosciamo già: “nessuno è insostituibile”.

Ma il problema più complesso è un altro. In un sistema come il nostro, dove la libertà di coscienza non può essere adeguatamente rispettata, che ruolo può giocare una formazione politica che voglia realizzare la democrazia compiuta?

Una formazione del genere dovrebbe agire soltanto nell’ambito della società civile, al fine di rispondere ai bisogni della gente comune. Non dovrebbe neppure sedere in Parlamento. Dovrebbe cioè porre le basi non per acquisire un potere prossimo venturo, quando le contraddizioni esploderanno, ma per esautorare progressivamente questo potere di tutte le sue funzioni.

Infatti, se anche una tale formazione operasse nel solo ambito della società civile, lavorando per risolvere le contraddizioni sociali, il giorno in cui andasse al potere, stante l’attuale sistema, inevitabilmente si corromperebbe. Gli uomini hanno creato un sistema che corrompe a prescindere dal livello di eticità della loro coscienza.

Questo mostruoso Moloch si chiama “delega istituzionalizzata”. Un partito per la transizione, che voglia realizzare la democrazia compiuta, è meglio che stia fuori dal Parlamento, proprio per dimostrare che la politica del sistema non solo non risolve alcun problema ma addirittura li crea.

Andare o non andare a votare, in tal senso, conta assai poco. La democrazia rappresentativa o delegata è un altro di quei problemi da risolvere, per il quale la medicina è una sola: la democrazia diretta o autogestita.

Abolire le province e ripensare il federalismo

Si sta discutendo se abolire o ridurre le Province. Io penso che vadano abolite in toto, perché sono una vergogna del nostro paese e di qualunque paese che voglia dirsi democratico. Sono un’emanazione dello Stato centralista. I Savoia le hanno prese dai francesi allo scopo di controllare i Comuni.

Sono i Comuni che devono avere più potere. Sono loro che devono decidere cosa fare a livello locale, con chi consorziarsi per gestire i problemi intercomunali e come utilizzare le tasse che devono restare in loco.

Il vero potere democratico è solo quello locale ed è il Comune che, al massimo, dovrebbe, a seconda della necessità contingente, concederlo temporaneamente allo Stato. Quanto più la delega dei poteri viene gestita lontana dal Comune tanto meno forti dovrebbero essere i poteri che si concedono, a meno che non vi siano urgenze particolari e momentanee (come quando le tribù cosiddette “barbare” affidavano, in caso di guerra, tutti i poteri a un sovrano eletto per il tempo necessario).

I Comuni fanno parte di una società civile che è il vero soggetto della democrazia. Oggi tutto questo viene vissuto in maniera rovesciata e il federalismo della Lega Nord non ha fatto che accentuare il centralismo.

Oggi però il vero problema è che la sinistra non ha nessun progetto alternativo allo Stato sociale che la destra vuole smantellare per favorire i monopoli privati. Ancora non riesce a capire che più importante dello Stato è la società civile e che bisogna progressivamente aumentare i poteri di questa società diminuendo quelli dello Stato. Se avesse capito questo, da tempo sarebbe riuscita a togliere alla Lega Nord il monopolio del discorso sul federalismo.

Un federalismo pensato in maniera davvero democratica deve prevedere l’autogestione collettiva (in ambito comunale) di tutte le risorse locali, contro il globalismo delle multinazionali, fino al ripristino dell’autoconsumo, per potersi emancipare, almeno nelle cose essenziali, dalle logiche dei mercati, che sfuggono, come le borse, ad ogni controllo politico.

Armi e Mercato. Uscire dal globalismo

Le armi che abbiamo creato sfuggono al nostro controllo nella stessa misura in cui ci sfugge il controllo del mercato. Abbiamo creato un sistema totalmente in mano ai poteri forti, autoritari, che non solo non sono controllati da nessuno, ma non sono neppure in grado di controllare se stessi.
Chiunque presume di non dover essere controllato, è potenzialmente un nemico pericoloso per la società, anzi, considerando l’attuale consistenza del globalismo economico e militare, per l’intera umanità.
La stessa tipologia di armi di cui questi potentati sono in grado di disporre si presta all’impossibilità di un controllo effettivo del loro impiego, come già dimostrato sin dalla prima guerra mondiale con l’uso dei gas, benché si parli oggi di “obiettivi chirurgici”. Il valore personale dei militari è diventato inversamente proporzionale alla potenza delle loro armi.
La reazione che questi poteri possono avere a quel che ritengono una minaccia per la loro sicurezza o per la loro autorità, reale o presunta che la minaccia sia, può anche esprimersi secondo criteri estranei a qualunque ragionevolezza umana. Infatti l’abitudine reiterata a gestire un potere assoluto, può indurre a compiere azioni il cui effetto può diventare inconsulto, imprevedibile, del tutto sproporzionato rispetto al rischio effettivo che si crede di subire o a qualunque intenzione o volontà di difesa si voglia manifestare. Tant’è che lo scoppio delle due ultime guerre mondiali è avvenuto cogliendo di sorpresa il mondo intero.
L’esercizio del potere assoluto deforma la percezione della realtà, esaspera i problemi, ingigantisce i pericoli, sottovaluta le conseguenze delle proprie azioni, rende incapaci di mediazioni. La tragedia del mondo contemporaneo è che la mancanza di esercizio della vera democrazia si verifica proprio nel momento in cui si crede di usarla (come quando p.es. si va a votare). L’occidente considera addirittura la propria esperienza di democrazia un prodotto di esportazione, da far valere anche con l’uso delle armi, legittimato da risoluzioni di organismi internazionali, in cui solo le cinque nazioni del Consiglio di Sicurezza dell’Onu dispongono di effettivi poteri.
Oggi la dittatura più pericolosa non è quella del terrorismo internazionale, ma quella che porta a compiere dei crimini contro l’umanità proprio in nome di un’idea distorta di democrazia: un’idea che l’economia borghese divulga attraverso la democrazia delegata e questa la trasmette alla società attraverso il monopolio dell’informazione.
L’economia di mercato ha fatto perdere il controllo sulla produzione, la quale produzione implica anche quella delle armi di distruzione di massa, che, nonostante la fine della guerra fredda, non sono state smantellate, ma, anzi, tendono sempre più a diffondersi. E tutto ciò è avvenuto proprio in nome della formale democrazia borghese, che non è sociale ma semplicemente parlamentare, e si vanta di rappresentare la volontà popolare anche quando i governi in carica sono votati da una minoranza, rispetto a tutti gli elettori aventi diritto di voto (come succede p.es. negli Usa, definiti la più grande democrazia del mondo, dove solo la metà dell’elettorato si reca alle urne).
Se non recuperiamo il concetto di autoproduzione, se non ci liberiamo dal dominio del mercato, dagli indici quantitativi del prodotto interno lordo, da uno sviluppo meramente economico e non sociale, se la democrazia non smette d’essere delegata e non diventa diretta, non solo non saremo mai in grado di controllare le azioni dei poteri forti, economici e militari, ma rischieremo anche di dover ripetere i meccanismi della stessa formale democrazia borghese persino dopo aver subito catastrofi mondiali, belliche o ambientali che siano.
Se non comprendiamo la necessità vitale dell’autogestione delle risorse produttive, rischiamo soltanto di perfezionare gli strumenti e gli inganni per una successiva catastrofe mondiale. Dobbiamo uscire da questo tragico destino e perverso circolo vizioso, riducendo al minimo la forza del mercato, puntando decisamente sulla decrescita e tornando progressivamente all’autoconsumo.
E in questo ritorno dovremmo paradossalmente difenderci con le armi da chi vorrà impedircelo: armi proporzionate a un uso meramente difensivo. Nell’ambito del mercato non c’è alcuna possibilità di sopravvivenza per chi non dispone di potere d’acquisto, meno che mai in maniera dignitosa, proprio perché chi è abituato al potere assoluto, non vuole perderlo, non vuole vederlo diminuire, anzi, lavora ogni giorno per aumentarlo, costruendo monopoli sempre più vasti e complessi, in grado di dominare la scena internazionale.
L’unico modo per poter controllare la gestione delle armi è quello di usarle per difendere il proprio territorio, in cui i cittadini decidono liberamente di praticare la gestione collettiva dei mezzi produttivi. Non abbiamo bisogno di un mercato mondiale per sentirci parte di uno stesso pianeta. Non ha alcun senso democratico uniformare i consumi per far sentire l’umanità una cosa sola.
Nel capitalismo non c’è alcuna possibilità che la politica controlli l’economia. E là dove si è tentato di farlo, usando gli stessi strumenti che la borghesia, sin dal suo nascere, si è data (lo Stato, la burocrazia, il parlamento, il partito politico ecc.), come nel cosiddetto “socialismo reale”, il fallimento è stato totale. Qualunque idea di socialismo che non preveda l’autoconsumo, è destinata a trasformarsi in una dittatura. Qualunque idea di socialismo che non preveda l’uso della democrazia diretta a livello locale, è destinata a svolgersi in maniera opposta ai propri fini, e quindi a porsi contro gli interessi di esistenza del genere umano.
Le comunità locali potranno sentirsi parte di un unico pianeta soltanto quando non ci sarà nessuno che farà loro perdere l’autonomia.

Per una transizione ad altro

Perché uno diventa “borghese”? Perché si dà così tanta importanza al denaro? Sembra una domanda banale, eppure se consideriamo che le antiche civiltà mediterranee, prima di entrare nella fase medievale, erano state caratterizzate per almeno duemila anni da una forte presenza di scambi commerciali, si rimane stupefatti al vedere che le tribù cosiddette “barbariche”, provenienti da est, non proseguirono affatto questo stile di vita, se non dopo altri cinquecento anni di contatto con ciò ch’era rimasto di quelle civiltà.

Soltanto verso il Mille gli ex-barbari, ora perfettamente latinizzati e cattolicizzati, cominciarono a diventare mercanti. E ci son voluti altri cinquecento anni prima che i commerci potessero diventare un sistema capitalistico vero e proprio, che viene fatto iniziare appunto nel XVI secolo. E ci sono voluti altri cinquecento anni prima che questo sistema s’imponesse in tutto il mondo, senza incontrare ostacoli insormontabili. Infatti tutti i tentativi compiuti per arginare questo fiume in piena sono clamorosamente falliti. Migliaia e migliaia di anni ci sono quindi voluti per rendere naturale una figura sociale che di naturale non ha nulla: il borghese.

Una figura che ha creato imponenti apparati statali, burocratici, giudiziari, parlamentari, polizieschi e militari per difendere il proprio esclusivo interesse, fatto passare per un “bene comune”. Una figura che ha saputo sostituire qualunque valore umano e religioso con un valore materiale avente funzione di equivalente universale: il denaro. Una figura che è stata capace di far passare per “democratico” uno stile di vita basato sullo sfruttamento del lavoro altrui.

Com’è stato possibile che una figura del genere, che ha letteralmente sconvolto i rapporti umani e naturali, trasformando ogni cosa in una sorta di compravendita, non abbia incontrato, sul suo cammino, un’opposizione che la obbligasse a invertire la marcia? Che cosa ha reso gli uomini così ciechi da non far accorgere loro che anche il più piccolo cedimento nei confronti di questa mentalità avrebbe avuto conseguenze letali per la loro stessa sopravvivenza?

Lo schiavismo romano venne abbattuto da forze che provenivano, seppur in forma disgregata, da ambienti clanico-tribali. Ma dov’è oggi la forza in grado di abbattere lo schiavismo salariato? La mentalità borghese ha fatto così breccia nell’umanità che persino l’ideologia che per prima chiese l’abolizione della proprietà privata, e cioè il socialismo, non è riuscita a restare coerente con se stessa. Per quale motivo qualunque azione venga compiuta contro il capitale finisce col tradire i presupposti di partenza?

Qui le ragioni sono due:

– la prima è che manca ancora una vera alternativa laica e umanistica al cristianesimo;
– la seconda è che manca ancora una definizione autenticamente “democratica” del socialismo.

L’affronto di questi due aspetti o procede in maniera parallela, oppure rischia di non approdare a nulla di davvero significativo per una transizione ad altro. Ma se è così, le premesse per affrontarli non possono che essere due:

– sviluppare al massimo la libertà di coscienza;
– garantire al massimo la gestione collettiva delle risorse di un determinato territorio.

Se non si è padroni del proprio territorio, non si è padroni della propria coscienza. Se non si usa la propria coscienza per impadronirsi del proprio territorio, non si è padroni di nulla.

L’anticapitalismo dei GAS

Dal 2004 ad oggi i cosiddetti “Gruppi di Acquisto Solidale” (GAS) sono passati da un centinaio di unità a circa ottocento, tra quelli nazionali ufficialmente recensiti, dimostrando di saper recepire in maniera efficace non solo le preoccupazioni ambientaliste dei Verdi, e quindi anzitutto la necessità di promuovere un’agricoltura biologica o comunque ecologica, ma anche le esigenze sociali di un maggior controllo del territorio, delle sue risorse, al fine di valorizzare tutte quelle opportunità che possono favorire la “democrazia diretta”, autogestita.

Risultando da tempo assodato lo stato di crisi in cui versano le istituzioni della democrazia rappresentativa (al punto che oggi c’è chi parla di “dittatura della democrazia parlamentare”), le esperienze di coinvolgimento di cittadini nelle scelte pubbliche locali, in questo caso eminentemente economiche, costituiscono un tentativo di dare una risposta strutturata, regolamentata, alla crisi della democrazia dei partiti e delle istituzioni.

Quando i Gas parlano di realizzare una concezione più umana dell’economia non pensano soltanto a riformulare un’etica del consumo critico, ma anche a ripensare i meccanismi su cui si fonda la gestione dell’economia in generale. Cosa che non riescono a fare né le istituzioni né i partiti politici, anche se l’istanza comunale è inevitabilmente quella maggiormente coinvolta in queste iniziative dal basso.

I Gas infatti non parlano soltanto di “sostenibilità ambientale”, ma anche di “decrescita”, mettendo in dubbio la necessità di aumentare a tutti i costi il prodotto interno lordo, ovvero l’ovvietà di dar maggiore spazio agli indici quantitativi, l’inevitabilità dello stress da competizione, in una parola molte delle regole su cui si regge l’attuale capitalismo. Occorre cioè cominciare a subordinare l’economico al sociale.

Queste associazioni informali di persone e famiglie comprano direttamente da produttori selezionati facendo ordinazioni collettive; per la ricerca dei prodotti migliori, la raccolta degli ordini, il ritiro della merce e la sua distribuzione ci si avvale di personale volontario. La distribuzione, p.es., avviene a basso impatto ambientale, tramite consegne multiple in aziende, condomini, sedi di associazioni e parrocchie.

I criteri di selezione dei produttori sono alquanto rigorosi:

  1. devono essere tutti locali (non solo perché così è più facile controllare la qualità della produzione, ma anche per diminuire lo spreco di energia nei trasporti);
  2. tendenzialmente sono preferibili quelli piccoli, perché è più semplice controllarne e/o orientarne la produzione e poi perché favoriscono l’occupazione (essendo la loro produzione a più alta intensità di manodopera che di capitale);
  3. il loro prodotto dev’essere biologico o ecologico;
  4. il lavoro con cui lo si ottiene non deve essere lesivo della dignità umana e animale (p.es. non è ammesso il lavoro nero o la discriminazione per motivi di nazionalità, sesso, religione ecc.);
  5. dev’essere chiaro l’impatto che ogni prodotto ha sull’ambiente in termini di inquinamento, imballaggio, trasporto;
  6. dev’essere esplicitato quanto del costo finale di un prodotto serve a pagare il lavoro e quanto invece la pubblicità e la distribuzione (questo perché il costo reale di produzione non corrisponde mai al prezzo di mercato).

I produttori, inizialmente, vengono visitati senza preavviso, per vedere come lavorano e per chiedere loro se sono disposti ad accettare nuove condizioni di produttività e di smercio, anche perché i Gas vogliono premiare i produttori virtuosi, emancipandosi totalmente dalla grande distribuzione.

I Gas si preoccupano inoltre, ben sapendo che la logica del mero profitto è del tutto irresponsabile, di risparmiare sui consumi, recuperando o riciclando tutto quanto viene acquistato. Il consumatore vuole diventare un soggetto attivo dell’economia, pretendendo dal produttore il rispetto dell’ambiente e della salute umana.

Risparmiare sui consumi vuol dire tante cose, p.es. mangiare meno carne. La trasmissione “Report” del 17 maggio 2009 arrivò a dire che per 60 milioni di italiani non è sufficiente macellare 500 milioni di polli l’anno, 4 milioni di bovini e 13 milioni di suini: il resto dobbiamo importarlo.

Mangiando meno carne si fa un favore agli animali che vivono negli allevamenti intensivi, i cui spazi risicatissimi hanno termine solo il giorno della macellazione. A causa dei nostri appetiti, che difficilmente potremmo definire “salutistici”, visto che le carni sono spesso piene di ormoni per la crescita e di antibiotici, enormi estensioni di terreno fertile, nel Terzo mondo, vengono destinati alla coltivazione di foraggi e quindi sottratti a quegli alimenti che potrebbero nutrire le già povere popolazioni locali. Per non parlare del fatto che questi allevamenti industrializzati emettono più gas serra (18%) di tutto il settore dei trasporti mondiali (14%).

A dir il vero la prospettiva dei Gas è quella di sperimentare un modello replicabile in contesti diversi da quelli della pura e semplice alimentazione: p.es. la finanza etica, il turismo responsabile, il software libero, ma anche la telefonia, l’energia… Questo per avere col territorio un approccio non più esclusivamente consumocentrico ma globale. Non per nulla essi cominciano a organizzarsi come Reti (o Distretti) di Economia Solidale (RES e DES).

E già affiorano le polemiche con chi sponsorizza il cosiddetto “commercio equo e solidale”, poiché si ritiene sia meglio favorire i produttori locali che non quelli lontani, la conoscenza diretta della produzione che non quella indiretta, anche perché per l’ambiente è decisamente preferibile una filiera corta (a km0), in grado di garantire più freschezza e meno conservanti.

Insomma l’agricoltura biologica, basata su un rapporto molto stretto tra produttore e consumatore, sta diventando un’opportunità di recupero, nei nostri territori, di pratiche agricole sostenibili (un tempo tradizionali) e anche, se vogliamo, di relazioni sociali, con cui si cerca di trasformare qualitativamente la gestione dello spazio rurale, dell’ambiente e del territorio.

Il pregio di cercare alternative

L’intera vita occidentale è ormai diventata di un’assurdità inusitata. Non possiamo neppure dire: pur dopo sessant’anni di pace entro i confini di Stati Uniti, Europa e Giappone, perché diremmo una sciocchezza. Abbiamo in realtà avuto decine di conflitti regionali, in varie parti del pianeta, in cui in un modo o nell’altro siamo stati coinvolti, e la situazione sociale, interna alle nazioni economicamente più avanzate, mostra una crescente tensione, specie dopo l’ultimo dissesto finanziario originario negli Usa e propagandatosi ovunque. La crisi, generata dalle banche, dagli istituti finanziari, dalle borse, dalle speculazioni dei broker, da manager senza scrupoli e da affaristi di ogni risma, è stata fatta pagare ai lavoratori e ora che una timida ripresa sembra affacciarsi sui mercati, i livelli occupazionali restano al palo, anzi continuano a calare: ciò a riprova che le leggi del capitale sono opposte a quelle del lavoro.

Gli occidentali sembrano essere diventati un problema irrisolvibile per l’intero pianeta e, dopo il crollo del “socialismo reale”, la loro cultura del business, in Cina, in Russia, in India, in Brasile e in tanti altri territori che fino a poco tempo o facevano parte del blocco socialista o appartenevano al cosiddetto “Terzo mondo”, non è più vista come una sorta di invasione extraterrestre, ma come un modello da imitare, il più in fretta possibile, sfruttando a piene mani le risorse umane e naturali dei propri territori.

* * *

Fondamentalmente noi siamo nocivi alla salute e all’ambiente, intenzionati a vivere di rendita sino al giudizio universale e privi di idee credibili, in quanto costantemente incoerenti nella pratica. Viviamo senza far nulla di davvero utile all’umanità. La quasi totalità dei consumatori occidentali non sa neppure l’origine di ciò che mangia, non conosce la fatica che ci vuole a produrre il proprio cibo. Noi conosciamo il nome dell’azienda che lo produce o lo smercia, ma non conosciamo chi materialmente lo realizza, in quali condizioni lo fa, se viene equamente retribuito. Sappiamo soltanto che di sicuro non è lui a decidere il prezzo dei suoi prodotti. Per il resto nulla di nulla, e poi con qualche scrupolo di coscienza parliamo di “commercio equo solidale”.

Non sappiamo da dove, precisamente, viene ciò che usiamo, a parte la generica provenienza della nazione. Anzi, quando ci dicono che molte cose provengono dal Terzo mondo, pensiamo di essere noi a fare un piacere a loro comprando i loro prodotti. Come se loro fossero sui mercati coi nostri stessi titoli. Che poi in fondo sono i nostri stessi monopoli che sui nostri mercati vendono i loro prodotti.

Anche quando pensiamo di essere utili a qualcuno, in realtà produciamo cose che altri han già deciso per noi (i proprietari dei nostri mezzi di lavoro); cose che sicuramente non faranno il bene della natura, poiché sono tutte artificiali (dove la chimica, i derivati del petrolio e altre sostanze di sintesi hanno assoluta preminenza); cose che faranno anche crescere il pil di una nazione ma che non miglioreranno la qualità della vita, proprio perché noi non sappiamo più cosa voglia dire “vivere in maniera naturale”.

Per noi “qualità” vuol dire “comodità”, cioè ottenere le stesse cose e anche di più e meglio, il più velocemente possibile (per risparmiare sul tempo, che è un nemico mortale per l’obsolescenza dei macchinari), il meno faticosamente possibile (per risparmiare sul costo del lavoro) e, nel migliore dei casi (ma qui ci vuole una dirigenza davvero illuminata), il meno pericolosamente possibile, onde evitare che le spese della formazione incontrino ostacoli insormontabili nei problemi della sicurezza.

In pratica “qualità della vita” vuol dire “godersi la vita”, lasciando ad altri il compito di faticare e di rischiare veramente. “Qualità della vita” significa aver tempo libero da dedicare ai propri interessi individuali o di piccolo gruppo.

Noi ci illudiamo di essere noi stessi quando pensiamo di poterlo essere in maniera autonoma. Quando p.es. viviamo da sedentari e quindi da alienati, ci ritagliamo un certo spazio per fare ginnastica, cioè per bruciare energie e restare in forma, non per produrre qualcosa di utile alla comunità (salvo il fatto che, se siamo in salute, la sanità pubblica spende meno per noi).

Le nostre case, per fare un altro esempio, non servono solo per mangiare e dormire, ma anche e soprattutto per viverci. La nostra vita è chiusa nelle quattro mura delle nostre abitazioni, che per noi sono un punto di forza del nostro benessere. Chiusi così, non abbiamo coscienza di nulla, non ci interessa più di tanto quel che sta fuori. Le news ci arrivano attraverso la televisione, mescolate assurdamente tra loro, dalle tragiche alle insulse, con assoluta indifferenza, come se fossero soltanto merci da vendere in un grande supermercato, dove pensiamo che la libertà stia nel poter scegliere tra venti dentifrici diversi.

Le news dicono tante cose, ma su nessuna di esse si può far qualcosa. Si può soltanto cambiare velocemente canale, per vedere e sentire sempre le stesse cose. Chi naviga in rete pensa di poter “interagire” con qualcuno, illudendosi di poter incidere su qualcosa o di poter avere ampie conoscenze con cui amministrare meglio la propria vita. Si pensa che, essendo in tanti, un qualche potere di resistenza o di cambiamento delle cose, lo si abbia e a volte sembra effettivamente così.

Ma i poteri forti non mollano, hanno più resistenza di noi, più mezzi, e tornano all’attacco, aggiustando il tiro delle loro restrizioni, il cui scopo è sempre quello di tutelare dei privilegi acquisiti. Non basta la rete virtuale per resistere, ci vuole anche quella reale.

* * *

La nostra democrazia è la nostra dittatura quotidiana, che non ha bisogno d’essere feroce, in quanto ci ha già svuotati dentro. Siamo come pinoli chiusi, che all’apparenza sembriamo pieni, ma che si schiacciano al primo colpo.

Ci siamo illusi che dagli operai, dagli studenti, dagli intellettuali progressisti, dalla Russia e dalla Cina comuniste, dal Terzo mondo anticapitalista o non-allineato potessero venir fuori idee rivoluzionarie, in grado di cambiare le cose nella sostanza. Invece al massimo sono state cambiate alcune forme, alcune leggi, alcune abitudini, ma la sostanza è rimasta uguale: noi continuiamo a non restare padroni della nostra vita, siamo eterodiretti. Che sia un monopolio politico o economico non fa differenza. Che l’ideologia si serva dello Stato, del partito o delle aziende non cambia nulla.

La democrazia parlamentare, formale, statale, delegata, e poi il mercato, il valore di scambio, i bisogni indotti, i capitali dominanti, i profitti estorti, le rendite vergognose, gli interessi accumulati, la corruzione dilagante – tutto questo è la nostra alienazione, la nostra dittatura quotidiana.

Noi dobbiamo uscire da questo stato di cose, se ci è rimasto un briciolo di dignità. Dobbiamo opporre resistenza affermando insieme un’autonomia produttiva, una sorta di autoconsumo para-feudale, senza servaggi, senza clericalismi di sorta, in cui sia finalmente il valore d’uso delle cose a farla da padrone.

* * *

Quali possono essere le prime regole fondamentali per riappropriarci della nostra vita, cercando di delegare ad altri meno cose possibili?

  1. Non usare mai nulla che la natura non possa riciclare agevolmente.
  2. Le cose che servono per riprodursi devono durare il più possibile.
  3. Se proprio si è costretti a scegliere tra esigenze umane e naturali, scegliere quelle naturali, perché si sbaglia di meno.
  4. Prima di creare qualcosa di artificiale chiedersi se quanto si trova in natura può essere sufficiente (o se si può fare usando materiali naturali).
  5. Quando è in gioco la sopravvivenza di un collettivo di vita, non fare mai scelte a titolo individuale.
  6. Progresso significa migliorare i rapporti con la natura, conservandola il più possibile integra e permettendole una facile riproduzione.
  7. Primato del valore d’uso vuol dire anzitutto primato dell’autoconsumo.
  8. Non parlare di cose che non conosci, che non riguardano la tua vita di gruppo o su cui non puoi offrire alcun contributo significativo per migliorarle.
  9. Ricomponi tutto il sapere alle cose essenziali che servono per vivere e riprodursi.
  10. Attieniti alle regole fondamentali della democrazia diretta:
    • nessuna decisione è irrevocabile;
    • il bisogno è superiore alla legge;
    • più bisogni più diritti;
    • nessuno è insostituibile o infallibile, neanche un organo collettivo;
    • la minoranza deve rispettare la volontà della maggioranza, previo dibattito franco e aperto;
    • a ognuno secondo il bisogno, da ognuno secondo le capacità;
    • le esigenze di un collettivo sono sempre superiori a quelle del singolo individuo;
    • la violazione della libertà di coscienza comporta la violazione di qualunque altra legge;
    • più la democrazia è delegata e meno poteri deve avere;
    • nessun ruolo o funzione può essere a vita o ereditario;
    • il diritto di espressione non può essere usato fino al punto da compromettere il diritto di associazione;
    • metodo e contenuto, sostanza e forma devono il più possibile coincidere;
    • la verità è sempre relativa alle condizioni di spazio e tempo, anche se la verità oggettiva è superiore a quella soggettiva.

Contro la delocalizzazione delle imprese

Da tempo il proletariato intellettuale e manuale dei paesi occidentali contribuisce, seppur in misura assai minore rispetto alla propria borghesia imprenditrice, allo sfruttamento del proletariato del Terzo mondo (che noi chiamiamo, eufemisticamente, “paesi in via di sviluppo” o “emergenti”), per cui è letteralmente impossibile che una qualunque rivendicazione il nostro proletariato ponga nei confronti della propria borghesia, coincida con gli interessi del proletariato terzomondiale.

L’unica rivendicazione davvero utile, in tal senso, potrebbe esser quella di far finire il rapporto di dipendenza “coloniale” che lega il Terzo mondo all’occidente (se non piace il termine “coloniale”, che andò per la maggiore dalla conquista dell’America alla seconda guerra mondiale, poi sostituito, nell’ambito della sinistra, con quello di “neocoloniale”, ad indicare che una indipendenza politica non coincide con quella economica, si può sempre usare quello di “para-coloniale” o “semi-coloniale” o “post-coloniale”, tanto la sostanza della “dipendenza” non cambia di molto).

Senonché è proprio lo sfruttamento congiunto del Terzo mondo (borghesia + proletariato occidentale), che impedisce a quest’ultimo di lottare sino in fondo contro la propria borghesia (di qui l’opportunismo che blocca ogni tentativo di fuoriuscire da questo sistema di rapporti iniqui). Anzi oggi il proletariato occidentale vede come un proprio nemico di classe lo stesso proletariato terzomondiale, in quanto il basso costo del lavoro di quest’ultimo risulta molto appetibile per le borghesie occidentali, le quali non hanno scrupoli nel delocalizzare le loro imprese.

L’unico modo di porre fine alla dipendenza economica del Sud nei confronti del Nord sarebbe quello di abbattere il capitalismo, ma di fronte a un nemico che si pone su scala internazionale, occorrerebbe un’organizzazione alternativa che si ponesse sullo stesso piano, come il socialismo aveva già pensato di fare sin dai suoi esordi.

Qualunque tentativo di abbattimento “nazionale” del capitalismo rischia di fallire, proprio perché una determinata borghesia potrebbe servirsi del proprio proletariato contro il proletariato di un’altra nazione. Cosa che si è già verificata nel corso delle due ultime guerre mondiali, ma anche nei periodi in cui si sono formati il colonialismo e l’imperialismo, e persino oggi nelle cosiddette “guerre regionali” che il capitalismo avanzato conduce in varie parti del pianeta. Molto raramente a combattere vanno i figli della borghesia, se non nei ranghi ufficiali più elevati.

Per uscire da questa situazione di stallo, in cui qualunque cosa “anti-borghese” si faccia in un territorio, rischia di avere conseguenze “anti-proletarie” in un altro, a causa del cosiddetto “globalismo”, occorre che la consapevolezza “proletaria” sia internazionale. Cioè occorre abituarsi all’idea di sostenere qualunque rivendicazione proletaria ovunque essa si manifesti.

Le borghesie si aiutano a livello mondiale quando devono combattere un nemico comune, benché siano in perenne competizione tra loro. Non si capisce perché un atteggiamento di analoga collaborazione non debba averlo il proletariato, il quale anzi, proprio a causa della sua intrinseca debolezza (rispetto a chi detiene la proprietà dei mezzi produttivi e dei mezzi per difenderla) ne avrebbe un motivo in più.

Bisogna inoltre aver chiaro che contro la dipendenza dai mercati borghesi vi è soltanto un’alternativa: l’autoconsumo. Il che non significa che ogni comunità debba restare isolata dalle altre, ma semplicemente che il valore di scambio non può prevalere su quello d’uso. Là dove c’è scambio senza autoconsumo, c’è dipendenza delle economie deboli nei confronti di quelle forti. Là dove invece c’è autoconsumo, si possono tranquillamente scambiare le eccedenze, conservando la propria autonomia.

Chi rivendica l’autoconsumo va difeso in ogni caso, anche se ciò comporterà una crisi delle economie dei paesi capitalisti e quindi un abbassamento del nostro tenore di vita. Il proletariato occidentale deve abituarsi all’idea che là dove si rivendicherà l’autoconsumo, si porranno le nuove basi di un sistema sociale in cui la classe proletaria non avrà più ragione d’esistere.

Il proletariato occidentale (quello di tutti i paesi cosiddetti “avanzati”, che geograficamente non sono solo in occidente) deve convincersi che non potrà, anzi non dovrà più partecipare allo sfruttamento borghese del proletariato terzomondiale, sia nel caso in cui accetti l’autoconsumo di quest’ultimo, sia nel caso in cui sia costretto ad accettare che la propria borghesia delocalizzi le proprie imprese.

Al momento le borghesie imprenditrici dei paesi capitalisti più avanzati, per far fronte alla continua caduta dei loro saggi di profitto, si stanno orientando verso la delocalizzazione delle loro imprese, operando licenziamenti di massa nelle aree occidentali (il cui costo viene scaricato sullo Stato sociale).

Poiché una situazione del genere raggiungerà presto un limite insopportabile, dalle conseguenze imprevedibili, sarebbe bene approfittare dell’occasione per dire agli imprenditori che se delocalizzano si punterà decisamente all’occupazione delle terre, senza alcun indennizzo ai proprietari, al fine di realizzare l’autoconsumo.

Lo stesso proletariato provvederà anche a gestire quelle imprese i cui prodotti risultano indispensabili alla comunità locale basata sull’autoconsumo. Il proletariato occidentale non può morire di fame solo perché la propria borghesia ha deciso di sfruttare soprattutto il proletariato terzomondiale, il cui lavoro ha costi incredibilmente bassi anche per le condizioni disumane in cui viene svolto.

Il senso della democrazia diretta (in rapporto al federalismo)

Nella storia le tragedie avvengono soprattutto non quando si ha torto (come nelle dittature), ma quando si ha ragione e si pretende di averla (come nelle dittature che sostituiscono altre dittature). Cioè quando le proprie ragioni, che possono essere anche migliori di quelle altrui o di quelle precedenti temporalmente alle nostre, vengono imposte con la forza.

E’ sotto questo aspetto singolare che chi ha ragione e pretende di averla, non s’accorge che se c’è una cosa che contraddice la verità è proprio l’uso della forza.

C’è solo un caso in cui la forza smette d’essere tale e diventa diritto: quando è la forza della stragrande maggioranza di una popolazione (o di un intero paese). In questo caso si è soliti dire che vi sono più probabilità che la ragione stia dalla parte della grande maggioranza, ammesso (e non concesso) che sia possibile stabilire effettivamente la volontà di questa maggioranza. Il “non concesso” è d’obbligo là dove si pensa di stabilire tale volontà limitandosi a quella parodia di democrazia che è l’elezione dei parlamentari.

Quando la popolazione avverte l’esigenza di esercitare la forza come un proprio diritto, significa che non si sente rappresentata da chi la governa, ovvero che al governo si sta usando la forza contro gli interessi della grande maggioranza della popolazione, si sta usando la forza per violare dei diritti generali, che a tutti bisognerebbe riconoscere.

E’ a quel punto e solo a quel punto che alla forza di una risicata minoranza detentrice del potere, bisogna opporre la forza della grande maggioranza che lo subisce. Solo a quel punto la forza diventa violenza rivoluzionaria, avente cioè lo scopo di abbattere il governo in carica con una insurrezione popolare.

Tuttavia la storia ci dice che le tragedie avvengono proprio quando si è abbattuto il governo autoritario in carica. Infatti succede sempre che i trionfatori credono d’essere autorizzati a servirsi delle loro ragioni come occasione per imporre una nuova forza.

Col pretesto di dover abbattere tutti i nemici che ancora cercano di opporsi al nuovo governo, si impongono nuove servitù, nuove costrizioni, spesso peggiori delle precedenti. E il popolo, abituato a obbedire, ingenuamente le subisce, le accetta passivamente per il bene comune, pensando a una qualche “ragion di stato”.

Tutte le rivoluzioni sono fallite proprio perché i vincitori finivano col comportarsi come i vinti. Persino quando le ragioni sono state di tipo “socialista”, si è verificato questo fenomeno.

Bisogna dunque trovare il modo per scongiurare un’involuzione della democrazia. E l’unico non può essere che quello di affidare allo stesso popolo le sorti del proprio destino. Chi lo avrà guidato alla vittoria, dovrà riconoscergli la capacità di autogestirsi e di difendersi da solo contro eventuali nemici.

Il popolo deve sperimentare il significato della democrazia diretta, autonoma, localmente gestita, dove l’esigenza di affermare una qualche forma di centralismo può essere determinata solo da un consenso preventivo, concordato e motivato da parte delle realtà locali, che possono stabilire un patto tra loro al fine di realizzare un obiettivo specifico.

La democrazia o è diretta, locale, autogestita, o non è. La democrazia delegata, centralizzata, nazionale o sovranazionale ha senso solo se è temporanea e solo se le prerogative sono ben definite dalle realtà locali territoriali.

Se si escludono i momenti particolari delle guerre contro un nemico comune, occorre affermare il principio che vi è tanta meno democrazia quanto più chi la gestisce è lontano dalle realtà locali.

Ecco in tal senso è possibile usare l’idea di “federalismo” per spingere la democrazia verso obiettivi più significativi di quelli attuali, che non possono certo essere quelli di rendere il capitalismo più efficiente, né quelli di scegliere, come contromisura al rischio di una disgregazione sociale, di aumentare i poteri dell’esecutivo (che alcuni vorrebbero trasformare in “presidenzialismo”).

Per conservare l’unità nazionale non c’è bisogno di alcun presidenzialismo. Se le realtà locali (federate tra loro) sono democratiche, è la democrazia stessa, è la sua intrinseca forza etica e politica, a tenere unita la collettività nazionale e internazionale.

Ma perché questa democrazia non sia una mera formalità della politica, occorre che da essa si passi al “socialismo”, cioè alla gestione comune delle risorse vitali, alla socializzazione dei mezzi produttivi, in cui il primato economico passi dal valore di scambio al valore d’uso.

O capitalismo o barbarie

Una civiltà non si regge in piedi se non riesce a convincere i propri cittadini che i suoi valori, i suoi modelli di vita sono assolutamente superiori a quelli di ogni altra civiltà, passata, presente e futura. La maggioranza dei cittadini deve avere la convinzione che alla propria civiltà non vi siano alternative praticabili: al massimo sono possibili sono aggiustamenti, riforme, ma non rivolgimenti rivoluzionari.

In quella romana, p.es., nonostante la presenza dello schiavismo, della povertà, dell’indebitamento progressivo dei cittadini liberi meno abbienti, nonostante il crescente latifondismo, il rapace fiscalismo dello Stato, la durissima leva militare e quant’altro, la gran parte dei cittadini era convinta che Roma fosse superiore a ogni altra civiltà in virtù della propria ingegneria e architettura, in virtù della proprie arte bellica, in virtù del proprio diritto… Solo quando la disperazione raggiunse livelli inusitati, i cittadini (specie quelli della periferia dell’impero) cominciarono a pensare che sotto i barbari sarebbero stati meglio.

Lo stesso avviene con la civiltà borghese, dove in nome della scienza e della tecnica, della capacità commerciale e finanziaria, della potenza bellica, della grande elaborazione di leggi, di filosofie, di ideologie di ogni tipo, su qualunque argomento dello scibile umano, si è convinti d’essere i migliori della terra.

I cittadini hanno la convinzione che, nonostante le crisi cicliche di sovrapproduzione, i fallimenti bancari e aziendali, i dissesti finanziari delle borse mondiali, le relazioni illegali tra economia e politica, la cronica disoccupazione e la crescente inflazione, il nostro sistema di vita non abbia alternative, ovvero costituisca in ogni caso, in via di principio, quanto di meglio si possa desiderare.

Sin dalle sue origini la borghesia ha generato l’attività commerciale più immorale e, nel contempo, ha predicato a tutta la società, ereditandola da una chiesa non meno corrotta, la morale più umana e più cristiana mai apparsa sulla terra. Dietro la copertura di elevati principi etici si sono tollerate, nella pratica quotidiana, le peggiori bassezze.

Ci si può chiedere, in tal senso, quali caratteristiche potrà e dovrà avere la prossima civiltà, quella che sostituirà la nostra. Dovrà per forza avere un aspetto più elevato della sordida economia borghese. Dovrà per forza mostrare maggiore coerenza tra valori umani e prassi sociale, almeno nella fase iniziale, quella in cui lotterà per imporsi sulla nostra. La politica, l’ideologia, l’etica, la coscienza dovranno necessariamente avere più importanza del profitto, della rendita, del denaro, del capitale, dell’oro e delle pietre preziose. Dovranno avere più importanza anche della scienza, della tecnica che devastano la natura, del militarismo aggressivo e colonialista con cui ancora oggi si vuol dominare il mondo intero.

In occidente, nei paesi capitalisti ci si appella all’etica, ai suoi principi assoluti, universali, quando fallisce l’economia, quando i gestori della produzione, del business, della finanza rivelano il loro vero volto di truffatori, di usurai legalizzati, di corrotti e corruttori. Si parla di etica nella speranza che i cittadini, cui sono stati abusivamente tolti moltissimi risparmi per rimediare i guasti dei manager furbi o incapaci, degli imprenditori senza scrupoli, dei bancari cinici ed egoisti e degli speculatori finanziari, abbiano pazienza, usino misericordia, tolleranza, sappiano perdonare gli iniqui, la cui iniquità – ci viene detto, con facce che a dir di bronzo è poco – resta puramente soggettiva, incapace di mettere in forse l’oggettività metafisica del sistema.

Ieri venivamo spaventati col pericolo del comunismo, oggi veniamo rassicurati che non ci succederà nulla, che possiamo continuare tranquillamente a consumare, a ballare sul Titanic, ché tanto la situazione, in un modo o nell’altro, si sistemerà. Proprio perché non c’è alternativa. Se affondano le imprese, le banche, le società finanziarie, affonda la civiltà. E questo oggi è inconcepibile, visto che l’unica alternativa possibile, il cosiddetto “socialismo reale”, è miseramente fallito.

Oggi gli statisti, gli economisti borghesi continuamente e cordialmente ci dicono: O capitalismo o barbarie. Come se le due cose fossero davvero in alternativa.

Il socialismo alla Berlinguer

Spesso, quando a sinistra si parla delle capacità profetiche che ha avuto Berlinguer in merito all’esaurimento della “spinta propulsiva” dei paesi est-europei, si dimentica di sottolineare che quando Berlinguer diceva quelle cose non aveva tanto di mira la democratizzazione del socialismo (come poi in effetti avverrà con la perestrojka di Gorbaciov), quanto piuttosto il superamento in sé del socialismo, sia “reale” che “ideale”, in nome di un’accettazione integrale, definitiva, della democrazia “occidentale”.

Con Berlinguer, infatti, è nata l’illusione di credere possibile una vera democrazia sociale senza socialismo, cioè senza rivoluzione politica e senza una gestione collettiva dei fondamentali mezzi produttivi.

La parola “riformismo” è subentrata a “rivoluzione” e la cosiddetta “democrazia progressiva” ha sostituito la necessità di un rovesciamento radicale del sistema, che tale si presenta quando, di fronte all’evidenza di contrasti insanabili, di contraddizioni insostenibili, gli elementi più retrivi della società (che gestiscono ancora il potere) non si rassegnano a farsi da parte, ma anzi minacciano di far piombare la nazione nel caos, nel terrorismo e nella guerra civile.

Berlinguer si è illuso di poter far accettare al capitale la sua idea di socialismo riformista, senza rendersi conto che, così facendo, veniva a perdere il consenso di quelle forze popolari veramente interessate all’idea di socialismo, cioè senza rendersi conto che in questa maniera sarebbero emersi quei ceti medi che piuttosto che sostenere una posizione ambigua come la sua avrebbero preferito votare, negli anni Ottanta, un socialismo chiaramente conservatore come quello craxiano, che pur sul piano laico riuscì parzialmente a ridimensionare le pretese della chiesa con la revisione del Concordato.

Berlinguer impose al partito comunista una battaglia esclusivamente parlamentare, venendo a perdere il rapporto con le masse. Non a caso il Pc non seppe mai cavalcare efficacemente la protesta generale che la società civile espresse negli anni dal 1968 al 1976.

La democrazia sociale da lui teorizzata altro non era che una democrazia politica borghese sostenuta dalla giustizia sociale promossa dallo Stato, il quale si doveva porre come correttivo super partes tra capitale e lavoro, quale fattore di riequilibrio delle leggi tendenzialmente anarchiche del mercato. La sua idea di socialismo altro non era che una forma di razionalizzazione del capitalismo, e tale è rimasta ancora oggi nelle file dei democratici di sinistra.

Con Berlinguer il socialismo italiano non mette più in discussione la sostanza del capitalismo, quella analizzata dai classici del marxismo, ma si limita semplicemente a contestarne gli effetti sociali più deleteri, quelli che potrebbero incrinare la fiducia delle masse nelle istituzioni: di qui la sua critica all’invadenza dei partiti negli organi dello Stato, che sinteticamente veniva definita col termine di “questione morale”.

In questo senso si è voluto vedere il crollo del “socialismo reale” come una conferma delle idee di Berlinguer (e di altri dirigenti del suo partito). Il comunismo italiano non ha saputo vedere nella perestrojka l’esigenza di democratizzare il socialismo, trasformandolo da statale a popolare, da burocratico ad autogestito, ma ha visto soltanto l’esigenza di abbracciare la democrazia politica occidentale (considerata insuperabile) e, con essa, le leggi del mercato (seppur tenute sotto controllo dallo Stato sociale), nella convinzione che questo sistema sociale funzioni meglio di qualunque socialismo. E il fatto che poi la perestrojka si sia trasformata nelle mani di Eltsin e Putin in un qualcosa che col socialismo non aveva più niente a che fare, ha ulteriormente dato conferma ai comunisti italiani che la strada indicata da Berlinguer era stata giusta, per cui si poteva anche smettere di considerarsi comunisti.

Certamente la perestrojka di Gorbaciov è fallita perché senza una partecipazione popolare delle masse, che si assumono il compito di gestire autonomamente la società, essa non poteva che fallire: nessuna vera riforma può essere imposta dall’alto. Ma altrettanto certamente fallirà l’idea di socialismo esistente oggi in Europa occidentale: un’idea che, non tenendo conto della democrazia popolare, se non in maniera demagogica e strumentale, dovrà per forza far leva sui poteri dello Stato, ancor più di quanto non sia stato fatto nei paesi est-europei. Già il socialismo craxiano s’è rivelato profondamente corrotto e ci vorranno delle generazioni prima che si torni di nuovo a parlare di idee socialiste.

Il fatto è che le contraddizioni del capitale col tempo non diminuiscono ma aumentano: basta vedere la recente crisi finanziaria mondiale, cui i governi hanno cercato di porre rimedio usando le leve dello Stato sociale, che di quella crisi non è stato responsabile. In occidente si usa il “socialismo” solo per rimediare ai guasti catastrofici degli speculatori, dei bancarottieri, degli imprenditori falliti, dei manager truffatori.

Andando avanti di questo passo sicuramente aumenterà l’esigenza di “vero socialismo” da parte delle masse popolari, ma chi saprà a quel punto indirizzarla verso una vera transizione? Anche prima che il fascismo e il nazismo andassero al governo esisteva un forte malcontento sociale: si pretendeva un maggior interventismo statale contro gli abusi delle classi sfruttatrici. Ma come andò a finire lo sappiamo. Queste classi si servirono delle proteste popolari indirizzandole verso una soluzione autoritaria, mascherata da slogan di tipo socialista. Il fascismo proveniva dal socialismo massimalista ed estremista, il nazismo si chiamava esplicitamente nazional-socialismo.

Queste forme di dittatura, in occidente, incontrano scarsa resistenza da parte delle masse, poiché queste s’illudono di poter risolvere velocemente, con mezzi autoritari, situazioni conflittuali divenute troppo complicate per poter essere affrontate coi mezzi consueti della democrazia. Il fascismo è il modo che il capitale ha d’imporsi con la forza dello Stato, dopo che la protesta delle masse popolari è divenuta insostenibile, e la capacità mistificatoria che ha è proprio quella di dimostrare che in virtù di tale protesta si possono effettivamente mutare le cose in meglio.

In questo senso il peggior servizio che il socialismo potrebbe fare alla democrazia, nella lotta contro le tendenze verso la dittatura, è quello di concedere troppo allo statalismo. Lo Stato non può mai essere visto come uno strumento neutrale nelle mani dei governi in carica, meno che mai nei momenti di crisi. O si usano le leve dello Stato per abbattere la resistenza di chi vuol vivere di rendita o sfruttando il lavoro altrui, oppure si fa di tutto per creare una società civile che non abbia bisogno di alcuno Stato.

Quello che si deve assolutamente evitare, anche per non ripetere errori già compiuti, è di statalizzare l’economia: fascismo e socialismo di stato non sono uno il rovescio dell’altro ma due facce della stessa medaglia. Lo stalinismo è stato enormemente responsabile del fraintendimento della parola “collettivismo”, eppure ciò che bisogna realizzare è proprio la collettivizzazione sociale dell’economia, la democrazia sociale delle masse, che è l’unico modo per superare efficacemente l’individualismo del produttore borghese e lo statalismo di cui si serve nei momenti di difficoltà e di controllo dell’opinione pubblica.

12 principi costituzionali da rivedere (II)

Art. 7. Questo articolo è la dimostrazione più evidente della debolezza del nostro Stato, costretto a riconoscere, da un lato, la propria limitatezza istituzionale, in quanto il Vaticano agisce in piena autonomia politica ed economica in una determinata porzione di territorio, rivendicando una gestione temporale dei propri beni che lo qualifica come uno Stato a pieno titolo (in grado addirittura di agire indisturbato a livello internazionale); e, dall’altro, il nostro Stato dimostra la propria insufficienza normativa, in quanto il Vaticano gli impedisce di affermare con coerenza i principi della laicità in materia di libertà di coscienza.

Questo articolo andrebbe completamente abolito o riscritto, evidenziando la piena sovranità e laicità dello Stato.

Art. 8. Questo articolo non prevede la libertà di non credere in alcuna religione. La libertà di coscienza viene qui equiparata alla libertà di religione, nel senso che ogni cittadino è libero di credere nella confessione che vuole.

In realtà la libertà di religione è solo un aspetto della libertà di coscienza, la quale appunto prevede anche la libertà di non credere in alcuna confessione.

Art. 9. Questo articolo è troppo generico per essere importante. Per renderlo più significativo si potrebbe aggiungere che la Repubblica tutela solo lo sviluppo di quella cultura orientata a promuovere l’umanizzazione dei rapporti sociali, e solo lo sviluppo di quella ricerca tecnico-scientifica favorevole alle esigenze riproduttive della natura.

Bisogna dettagliare questo per impedire che la prima parte dell’articolo finisca col trovarsi in contrasto con la seconda. Non tutta la cultura, non ogni tipo di ricerca merita d’essere tutelata.

Art. 10. Questo articolo dovrebbe avere un valore sia in tempo di pace che in tempo di guerra, e quindi a prescindere da qualunque contenzioso la nostra Repubblica possa avere con chicchessia.

Inoltre bisognerebbe precisare che la nostra Repubblica si attiene alle norme del diritto internazionale solo quando queste sono conformi ai valori umani universali e alle esigenza di tutela ambientale.

Infine bisognerebbe aggiungere che nelle controversie internazionali o anche solo bilaterali (tra Stato e Stato), la nostra Repubblica si appellerà, se lo riterrà opportuno per risolverle, a organi di carattere internazionale, riconoscendo a questi organi un potere vincolante per le decisioni che prenderanno.

Art. 11. Questo articolo viene costantemente smentito dalle cosiddette “missioni di pace”, che vengono compiute da un personale militarizzato. Bisogna quindi precisare che qualunque intervento armato, non avente scopo meramente difensivo dei nostri confini territoriali, cioè dell’integrità della nostra nazione, va considerato illegale. Dal nostro territorio non dovrebbero uscire forze armate di alcun genere, neppure per fare delle esercitazioni.

Anzi, il nostro Stato dovrebbe operare affinché si riconosca a livello internazionale il divieto, da parte di forze militari nazionali, di occupare spazi di cielo, di terra e di mare che risultano comuni a più nazioni o anche a tutte le nazioni del mondo. Gli spazi internazionali devono essere lasciati liberi da qualunque tipo di arma.

Dovrebbe essere tassativamente vietato che uno Stato possa disporre di proprie basi militari al di fuori dei propri confini.

Sarebbe bene che il nostro Stato s’impegnasse per primo in questa direzione, mostrando agli altri Stati che la sicurezza è maggiormente garantita non in presenza ma in assenza delle armi.

Inoltre nella Costituzione dovrebbe esserci un articolo che prevede la rinuncia definitiva alla produzione, alla vendita, all’uso di qualunque arma di sterminio di massa. Dovrebbe essere proibita in maniera tassativa anche la vendita di qualsivoglia arma all’estero.

Art. 12. Questo articolo è frutto dello Stato centralista. Si può riconoscere allo Stato una determinata bandiera, ma permettendo anche alle Regioni e persino ai Comuni di aggiungere sullo sfondo tricolore gli elementi simbolici che li caratterizzano da secoli.