Tema: chi è l’aggressore e chi l’aggredito? Svolgimento: l’aggredita è la Russia, l’aggressore gli USA.

L’HO RIPRESO DA FACEBOOK

279758341_706665784002712_2938627302700161395_n
Maurizio Ulisse Murelli

Tema: chi è l’aggressore e chi l’aggredito?
Svolgimento: L’aggredita è la Russia, l’aggressore gli USA.
Fine svolgimento tema.
Gli ottusi possono continuare con la filastrocca a premessa di ogni loro dire su quanto accade in Ucraina. La potremmo dunque chiudere qui che tanto l’esposizione di fatti oggettivi non fa mutare di posizione a nessuno. Per gli ottusi infatti tutto parte il 24 febbraio di quest’anno. Per i moderati tutto parte con il golpe atlantista di Maidan nel 2014. Per quelli come me tutto parte nel 1823 con la “dottrina Monroe” in seguito riveduta, corretta e ampliata. Se agli inizi il succo era che gli Stati Uniti non avrebbero tollerato che una nazione europea colonizzasse una nazione indipendente nel Nord o nel Sud America considerando un eventuale intervento in tal senso nell’emisfero occidentale un atto ostile, in seguito, a partire dalla fine della Prima Guerra Mondiale, è diventato atto ostile l’ostacolare il loro espansionismo imperialista in ogni luogo del pianeta dove loro ritengano avere un qualsiasi interesse.
Sì la prendo alla lunga e alla larga, mettendo sul piatto quel che i vermilingui dell’informazione e gli zerbini degli USA, in pratica tutti gli ascari dell’ambaradan politico-economico-finanziari occidentale non vogliono sia messo sul piatto. Per costoro un dittatore russo il 24 febbraio si è svegliato con la luna storta e, messo piede giù dal letto, ha dato ordine di invadere la pacifica e democratica Ucraina. Così non è, non lo è oggettivamente che gli ottusi lo vogliano capire oppure no. Non capendolo e facendo finta di non capirlo stanno suicidando l’embrione europeo che sopravvive nonostante la UE e i mezzadri del potere USA che albergano nei palazzi di Bruxelles.
La “dottrina Monroe” riveduta e corretta riceve altro imput all’indomani della Seconda Guerra Mondiale e compie un ulteriore passo avanti a partire dal 1990.
Implosa l’URSS si ritrova con le mani libere. Da una parte, non rispettando i patti, attraverso la Legione Straniera altrimenti chiamata NATO, gli USA inglobano gli ex Stati che facevano parte del Patto di Varsavia, dall’altra attaccano con le più inverosimili e ridicole giustificazioni gli Stati che erano sotto l’ombrello protettivo Russo: in Europa la Serbia, in Medio Oriente l’Iraq per poi destabilizzare con le “rivoluzioni colorate” vari paesi africani e medio-orientali, a cominciare dalla Siria (dove per inciso la Russia ha l’unica base navale fuori dal suo territorio a fronte del centinaio statunitensi sparse nel globo terraqueo) provandoci in Georgia e Biellorussia per finire con l’Ucraina. La quale Ucraina viene fatta grazia di un golpe atlantista, salvata dalla bancarotta con l’immissione di miliardi di dollari ottenendo in cambio di trasformarla in un “hub militare” per il traffico illegale (stante le disposizioni ONU) di armi verso l’Africa e non solo. Inciucciano con gli “oligarchi” (vedi il figlio di Biden) per i traffici più indicibili e fomentano/sostengono la deriva russofobica. Russofobia che i Russi interpretano come nazificazione richiamandosi all’idelogia razzista anti-slava presente nel complesso ideologico Nazionalsocialista e della quale tengono conto al pari delle altre ragioni, da quella geopolitica/espansionistica, economica etc.
A partire dal 2014 in Ucraina prende il via la guerra civile che non si svolge solo in Donbass. In tutto il paese i russofoni e russofili sono perseguitati e, mentre gli occidentali frignano sulla supposta persecuzione dei giornalisti anti-putiniani, in Ucraina ne fanno secchi un’ottantina. Propibiscono l’uso della lingua russa, mettono fuori legge i partiti filorussi e per sovra mercato anche quelli che semplicemente sono anti zeleskyani. Per otto anni i Russi tentano di ridurre a più miti consigli il regime ucraino, richiamando gli occidentali agli accordi di Minsk e quant’altro. Ma più i russi richiamano gli ucraini e gli occidentali, più gli americani con gli ascari inglesi imbottiscono di armi l’Ucraina e la spingono all’intrassigenza verso la Russia.
L’obiettivo degli USA è liquidare la Russia, isolare la Cina, domare India e Pakistan. Riaffermare l’Ordine Mondiale Unipolare che il blocco orientale sta mettendo a repentaglio. Per liquidare la Russia vale la dottrina di Brzezinski che come è notorio sostiene proprio che l’Ucraina non solo non deve far parte della Federazione russa, ma deve essere sottratta dalla sua influenza. Gli USA di Biden vanno oltre: la trasformano in una “bomba sporca” contro la Russia. Alla Russia altro non è rimasto che difendersi da questa articolata aggressione.
Che si doveva arrivare a questo gli analisti occidentali ne erano ben consapevoli. Vale, a titolo di esempio, questo articolo di Lucio Caracciolo pubblicato su un giornale ticinese il 12 aprile 2021.
Non voglio fare un post troppo lungo. Per ora mi fermo qui. Ma poi “rinciccio” il tema con altri post per uno svolgimento che le carognette atlantiste non vorrebbero fosse fatto, a cominciare da certa camerateria e certa compagneria. Per loro conto di riservare il meglio…

Guerra in Ucraina e (altra) fame in Africa

di Mario Lettieri* e Paolo Raimondi**

I venti di guerra stanno mettendo a dura prova l’economia mondiale con effetti negativi, soprattutto sul continente africano. Secondo l’economista del South African Institute of International Affairs (SAIIA), Steven Gruzd, “l’insicurezza alimentare avrà conseguenze molto gravi a causa del conflitto in corso, considerato che la Russia è il maggiore esportatore di grano in Africa e l’Ucraina è al quinto posto”. A loro si deve quasi un terzo delle esportazioni di grano, orzo e semi di girasole.

La produzione e l’export di questi beni sono in drammatica crisi non solo a causa dei danni diretti della guerra, dell’interruzione delle vie di comunicazione e dei porti, ma anche perché un’elevata quota delle terre ucraine potrebbe perdere la stagione delle semine. Molti campi sono stati abbandonati e non stanno arrivando dalla Russia i fertilizzanti necessari per la normale produzione.

La Food and Agricultural Organization delle Nazioni Unite (Fao) giustamente lancia allarmi sulla sicurezza alimentare. Alla 32.ma Sessione della Conferenza Regionale per l’Africa, tenutasi a metà aprile a Malabo, capitale della Guinea Equatoriale, ha affermato che “il numero di persone che soffrono la fame nell’Africa sub sahariana è, dopo anni di declino, di nuovo in aumento. Secondo gli ultimi dati, 282 milioni di persone nel continente, in altre parole oltre un quinto della popolazione, non hanno cibo a sufficienza, con un aumento di 46 milioni rispetto al 2019”.

L’Indice Fao dei prezzi alimentari ha raggiunto una media di 159,3 punti a marzo 2022, in aumento del 12,6% rispetto a febbraio, il livello massimo dal suo inizio nel 1990. Nello specifico, in un mese l’indice per i cereali è cresciuto del 17,1% e quello dell’olio vegetale del 23,2,%.

A dire il vero, i prezzi delle materie prime agricole avevano preso a correre già prima della guerra in Ucraina. La “manina” della sempre presente e attiva speculazione finanziaria era ben visibile.

David Beasley, direttore del World Food Programme ha avvisato che il conflitto può provocare “una catastrofe alimentare di portata globale, la peggiore crisi alimentare dalla seconda guerra mondiale”.  Prima del 24 febbraio l’agenzia Onu nutriva 125 milioni di persone. Il 50% del grano acquistato dal Wfp era ucraino. Adesso deve tagliare le razioni a causa dell’aumento dei prezzi del cibo e del carburante.

Infatti, come sostiene anche l’Ocse, la Russia fornisce circa il 19% del gas naturale mondiale e l’11% del petrolio. I prezzi dell’energia sono aumentati in modo preoccupante. Ad esempio, i prezzi spot del gas in Europa sono di 10 volte superiori rispetto a un anno fa, mentre il costo del petrolio è quasi raddoppiato nello stesso periodo.

Beasley ha affermato che l’Ucraina è passata dall’essere “il granaio del mondo” ad avere essa stessa bisogno di pane. Lo stop dell’export di grano dall’Ucraina andrà a gravare soprattutto su quei Paesi dove è già diffusa la povertà. Per esempio, il Libano importa dall’Ucraina il 74% di grano per la propria sussistenza, l’Egitto il 30%, la Tunisia il 47,7%, la Libia il 43% e lo Yemen il 22%. Eritrea e Somalia dipendono interamente dalle importazioni di grano da Russia e Ucraina.

Il dramma delle popolazioni dipendenti dall’import alimentare è stato evidenziato anche dal vice direttore della Fao, l’italiano Maurizio Martina, ricordando che 26 Paesi a basso livello di reddito, molti dei quali africani ma anche dell’Asia meridionale, dipendono da Russia e Ucraina per oltre la metà della loro importazione di cereali.

Non si può, quindi, non condividere le raccomandazioni della Fao di tenere aperti i mercati dei beni alimentari e dei fertilizzanti e di rivedere le restrizioni al loro export, considerando le conseguenze delle sanzioni sulla vita di centinaia di milioni di persone.

Si stima che quest’anno arriveranno nei Paesi più bisognosi 35 milioni di tonnellate di cereali in meno rispetto a quelli dello scorso anno. Sono già cominciate le file per il pane a Tunisi; l’Egitto ha riserve di grano per qualche mese e altri Paesi africani vedono lo spettro di inevitabili crisi alimentari.

E’ opportuno ricordare che questi grandi importatori di grano in passato sono stati spesso teatro di rivolte popolari causate proprio dall’aumento dei prezzi del pane.

Il problema, quindi, non è solo dei Paesi in guerra ma anche di tutti i Paesi occidentali che hanno dettato sanzioni senza valutarne appieno gli effetti negativi nelle altre parti del mondo.

*già sottosegretario all’Economia  **economista

Dollaro Addio? La nuova valuta commerciale di Russia e Cina

Mario Lettieri* e Paolo Raimondi**

Può sorprendere quei politici che credono che gli eventi importanti accadano all’improvviso, senza la necessaria e lunga preparazione. La possibile apparizione di una nuova moneta internazionale alternativa al dollaro non è una sorpresa.

A metà marzo si è tenuto in Armenia l’incontro “Nuova fase della cooperazione monetaria, finanziaria ed economica tra l’Unione economica euroasiatica (Uee) e la Repubblica popolare cinese”, organizzato dalla Commissione economica euroasiatica e dall’Università Renmin di Pechino per definire i contorni di un nuovo sistema monetario e finanziario internazionale, almeno per quanto riguarda la parte orientale del mondo.

L’Uee è l’unione economica e commerciale cui partecipano la Russia, la Bielorussia, il Kazakistan, la Kirghisia e l’Armenia con un Pil di circa 1.700 miliardi di dollari. Essa è molto proiettata verso una stretta collaborazione con la Belt and Road Initiative, la nuova Via della seta voluta dalla Cina. Già nel 2020 la Cina aveva aumentato di circa il 20% il suo turnover commerciale con l’Uee, mentre l’utilizzo delle monete nazionali rappresentava solo il15% dell’interscambio totale.

Sul tavolo vi è la creazione di una “nuova moneta” basata su un paniere di valute, tra cui il rublo e lo yuan, ancorata anche al valore di alcune materie prime strategiche, incluso l’oro.

Pensare che sia solo la reazione disperata alla recente imposizione di super sanzioni nei confronti della Russia, sarebbe una valutazione fuorviante. Si tratta, invece, di un progetto in campo da molti, molti anni, sia in Russia sia in Cina.

Il progetto fu reso pubblico già nell’ottobre del 2020 dall’economista russo Sergei Glazyev, membro del consiglio e ministro incaricato dell’Integrazione e della Macroeconomia della Commissione economica euroasiatica. Egli aveva sollecitato a creare nuovi strumenti nazionali di pagamento per accantonare l’utilizzo di “valute di Paesi terzi”, intendendo ovviamente soprattutto il dollaro e l’euro, nelle transazioni commerciali e monetarie tra i membri dell’Unione euroasiatica e la Cina.

Glazyev affermava che l’idea era la risposta “alle sfide e ai rischi comuni associati al rallentamento economico globale e alle misure restrittive contro gli Stati dell’Uee e la Cina”. Si trattava di un piano per superare il sistema unipolare del dollaro, già in atto dopo le sanzioni imposte alla Russia a seguito dell’annessione della Crimea nel 2014.

L’economista russo sosteneva che l’infrastruttura finanziaria e di pagamento era già stata creata ed era necessario sviluppare un sistema d’incentivi per favorirne l’utilizzo nelle relazioni commerciali ed economiche.

Il ministro della Commissione economica euroasiatica proponeva: 1)  sviluppare dei meccanismi per stabilizzare i tassi di cambio delle valute nazionali dei Paesi membri, riducendo le commissioni bancarie e gli interessi sui prestiti; 2) creare dei meccanismi per determinare i prezzi delle merci nelle valute nazionali nell’ambito degli accordi tra l’Uee e la Belt and Road Initiative, coinvolgendo in seguito anche altri Paesi, eventualmente quelli della Shanghai Cooperation Organization (Sco) e quelli dell’Asean.

Naturalmente in tale processo s’inserisce anche la recente richiesta di Putin di esigere il pagamento in rubli delle forniture del gas, i cui contorni sono ancora da chiarire.

Riconoscendo l’incapacità del dollaro di sostenere l’intero sistema monetario e finanziario globale, già prima della grande crisi finanziaria del 2008 avevamo proposto l’idea di creare, in modo lungimirante e concordato, un nuovo sistema internazionale basato su un paniere di monete importanti, tra cui il dollaro, l’euro, lo yuan e il rublo. In un mondo erroneamente creduto unipolare, purtroppo, non se n’è fatto niente. Il sistema del dollaro, e gli interessi geoeconomici a esso connessi, non l’hanno permesso.

La recente proposta russo-cinese di creare una loro nuova moneta basata su un paniere di valute e di materie prime è un dato di fatto da analizzare. Possiamo solo affermare che, in questo modo separato, purtroppo non potrà che approfondire la divisione tra Est e Ovest e aggravare ulteriormente la pericolosa situazione attuale.

Pesanti, secondo noi che ne scriviamo da anni, sono le responsabilità dei competenti organismi internazionali, come il G20, che non hanno mai voluto affrontare con determinazione la questione, nonostante le varie crisi finanziarie e le richieste avanzate da più parti.

*già sottosegretario all’Economia **economista

La lunga marcia degli USA verso la distruzione della Russia

https://www.resistenze.org/sito/te/cu/st/custmc30-025058.htm?fbclid=IwAR2A4TQPzcflbORmh8ITfYnyDYO1QftHqJfjgSa48BjlX9HihnXVjuUehik

FORMIDABILE! SEMPLICEMENTE FORMIDABILE! Scopro quante cose importantissime ignoravo anch’io, e come è stata sistematicamente ingannata l’opinione pubblica nei riguardi (non solo) della Russia fin dagli albori del secolo scorso. Questa maledetta guerra è stata a lungo preparata e voluta dagli USA, che usando strumentalmente e cinicamente l’Ucraina ci hanno trascinato la Russia tirandola per i capelli.

LETTERA DI 10 EX CORRISPONDENTI DI GUERRA CONTRO LA PROPAGANDA DEI NOSTRI MEDIA

La guerra fa schifo.
E per comprenderlo bisogna raccontarla.
Non fomentarla.

LETTERA DI 10 EX CORRISPONDENTI DI GUERRA CONTRO LA PROPAGANDA DEI NOSTRI MEDIA

“Ecco perché sull’Ucraina il giornalismo sbaglia. E spinge i lettori verso la corsa al riarmo”: lo sfogo degli ex inviati in una lettera aperta. “Basta con buoni e cattivi, in guerra i dubbi sono preziosi”

Undici storici corrispondenti di grandi media lanciano l’allarme sui rischi della narrazione schierata e iper-semplicistica del conflitto: “Viene accreditato soltanto un pensiero dominante e chi non la pensa in quel modo viene bollato come amico di Putin”. L’ex inviato del Corriere Massimo Alberizzi: “Questa non è più informazione, è propaganda. I fatti sono sommersi da un coro di opinioni”. Toni Capuozzo (ex TG5): “Sembra che sollevare dubbi significhi abbandonare gli ucraini al massacro, essere traditori, vigliacchi o disertori. Trattare così il tema vuol dire non conoscere cos’è la guerra”
“Osservando le televisioni e leggendo i giornali che parlano della guerra in Ucraina ci siamo resi conto che qualcosa non funziona, che qualcosa si sta muovendo piuttosto male”. Inizia così l’appello pubblico di undici storici inviati di guerra di grandi media nazionali (Corriere, Rai, Ansa, Tg5, Repubblica, Panorama, Sole 24 Ore), che lanciano l’allarme sui rischi di una narrazione schierata e iper-semplicistica del conflitto nel giornalismo italiano (qui il testo integrale sul quotidiano online Africa ExPress). “Noi la guerra l’abbiamo vista davvero e dal di dentro: siamo stati sotto le bombe, alcuni dei nostri colleghi e amici sono caduti”, esordiscono Massimo Alberizzi, Remigio Benni, Toni Capuozzo, Renzo Cianfanelli, Cristiano Laruffa, Alberto Negri, Giovanni Porzio, Amedeo Ricucci, Claudia Svampa, Vanna Vannuccini e Angela Virdò. “Proprio per questo – spiegano – non ci piace come oggi viene rappresentato il conflitto in Ucraina, il primo di vasta portata dell’era web avanzata. Siamo inondati di notizie, ma nella rappresentazione mediatica i belligeranti vengono divisi acriticamente in buoni e cattivi. Anzi buonissimi e cattivissimi“, notano i firmatari. “Viene accreditato soltanto un pensiero dominante e chi non la pensa in quel modo viene bollato come amico di Putin e quindi, in qualche modo, di essere corresponsabile dei massacri in Ucraina. Ma non è così. Dobbiamo renderci conto che la guerra muove interessi inconfessabili che si evita di rivelare al grande pubblico. La propaganda ha una sola vittima: il giornalismo”.

“L’opinione pubblica spinta verso la corsa al riarmo” – Gli inviati, come ormai d’obbligo, premettono ciò che è persino superfluo: “Qui nessuno sostiene che Vladimir Putin sia un agnellino mansueto. Lui è quello che ha scatenato la guerra e invaso brutalmente l’Ucraina. Lui è quello che ha lanciato missili provocando dolore e morte. Certo. Ma dobbiamo chiederci: è l’unico responsabile? Noi siamo solidali con l’Ucraina e il suo popolo, ma ci domandino perché e come è nata questa guerra. Non possiamo liquidare frettolosamente le motivazioni con una supposta pazzia di Putin“. Mentre, notano, “manca nella maggior parte dei media (soprattutto nei più grandi e diffusi) un’analisi profonda su quello che sta succedendo e, soprattutto, sul perché è successo”. Quegli stessi media che “ci continuano a proporre storie struggenti di dolore e morte che colpiscono in profondità l’opinione pubblica e la preparano a una pericolosissima corsa al riarmo. Per quel che riguarda l’Italia, a un aumento delle spese militari fino a raggiungere il due per cento del Pil. Un investimento di tale portata in costi militari comporterà inevitabilmente una contrazione delle spese destinate al welfare della popolazione. L’emergenza guerra – concludono – sembra ci abbia fatto accantonare i principi della tolleranza che dovrebbero informare le società liberaldemocratiche come le nostre”.

Alberizzi: “Non è più informazione, è propaganda” – Parole di assoluto buonsenso, che tuttavia nel clima attuale rischiano fortemente di essere considerate estremiste. “Dato che la penso così, in giro mi danno dell’amico di Putin”, dice al fattoquotidiano.it Massimo Alberizzi, per oltre vent’anni corrispondente del Corriere dall’Africa. “Ma a me non frega nulla di Putin: sono preoccupato da giornalista, perché questa guerra sta distruggendo il giornalismo. Nel 1993 raccontai la battaglia del pastificio di Mogadiscio, in cui tre militari italiani in missione furono uccisi dalle milizie somale: il giorno dopo sono andato a parlare con quei miliziani e mi sono fatto spiegare perché, cosa volevano ottenere. E il Corriere ha pubblicato quell’intervista. Oggi sarebbe impossibile“. La narrazione del conflitto sui media italiani, sostiene si fonda su “informazioni a senso unico fornite da fonti considerate “autorevoli” a prescindere. L’esempio più lampante è l’attacco russo al teatro di Mariupol, in cui la narrazione non verificata di una carneficina ha colpito allo stomaco l’opinione pubblica e indirizzandola verso un sostegno acritico al riarmo. Questa non è più informazione, è propaganda. I fatti sono sommersi da un coro di opinioni e nemmeno chi si informa leggendo più quotidiani al giorno riesce a capirci qualcosa”.

Negri: “Fare spettacolo interessa di più che informare” – “Questa guerra è l’occasione per molti giovani giornalisti di farsi conoscere, e alcuni di loro producono materiali davvero straordinari“, premette invece Alberto Negri, trentennale corrispondente del Sole da Medio Oriente, Africa, Asia e Balcani. “Poi ci sono i commentatori seduti sul sofà, che sentenziano su tutto lo scibile umano e non aiutano a capire nulla, ma confondono solo le acque. Quelli mi fanno un po’ pena. D’altronde la maggior parte dei media è molto più interessata a fare spettacolo che a informare”. La vede così anche Toni Capuozzo, iconico volto del Tg5, già vicedirettore e inviato di guerra – tra l’altro – in Somalia, ex Jugoslavia e Afghanistan: “L’influenza della politica da talk show è stata nefasta”, dice al fattoquotidiano.it. “I talk seguono una logica binaria: o sì o no. Le zone grigie, i dubbi, le sfumature annoiano. Nel raccontare le guerre questa logica è deleteria. Se ci facciamo la domanda banale e brutale “chi ha ragione?”, la risposta è semplice: Putin è l’aggressore, l’Ucraina aggredita. Ma una volta data questa risposta inevitabile servirebbe discutere come si è arrivati fin qui: lì verrebbero fuori altre mille questioni molto meno nette, su cui occorrerebbe esercitare l’intelligenza”.

Capuozzo: “In guerra i dubbi sono preziosi” – “Sembra che sollevare dubbi significhi abbandonare gli ucraini al massacro, essere traditori, vigliacchi o disertori”, argomenta Capuozzo. “Invece è proprio in queste circostanze che i dubbi sono preziosi e l’unanimismo pericolosissimo. Credo che questo modo di trattare il tema derivi innanzitutto dalla non conoscenza di cos’è la guerra: la guerra schizza fango dappertutto e nessuno resta innocente, se non i bambini. E ogni guerra è in sè un crimine, come dimostrano la Bosnia, l’Iraq e l’Afghanistan, rassegne di crimini compiute da tutte le parti”. Certo, ci sono le esigenze mediatiche: “È ovvio che non si può fare un telegiornale soltanto con domande senza risposta. Però c’è un minimo sindacale di onestà dovuta agli spettatori: sapere che in guerra tutti fanno propaganda dalla propria parte, e metterlo in chiaro. In situazioni del genere è difficilissimo attenersi ai fatti, perché i fatti non sono quasi mai univoci. Così ad avere la meglio sono simpatie e interpretazioni ideologiche”. Una tendenza che annulla tutte le sfumature anche nel dibattito politico: “La mia sensazione è che una classe dirigente che sente di avere i mesi contati abbia colto l’occasione di scattare sull’attenti nell’ora fatale, tentando di nascondere la propria inadeguatezza. Sentire la parola “eroismo” in bocca a Draghi è straniante, non c’entra niente con il personaggio”, dice. “Siamo diventati tutti tifosi di una parte o dell’altra, mentre dovremmo essere solo tifosi della pace”.

ANCHE LA NATO (CIOE’ GLI USA) HA LE SUE COLPE. PESANTI

Questo intervistato NON è un “putiniano”, ma un ambasciatore italiano d’alto livello, testimone di cose interessanti. L’intervista, lunga, l’ha pubblicata Dagospia frantumandola in un mare di inserti pubblicitari. Per risparmiarvi lo slalom pubblico il testo dell’intervista totalmente privo di pubblicità. Per correttezza pubblico nel primo commento anche il link all’intervista su Dagospia.
——
“L’allargamento a est della Nato è il peccato originale che ha alimentato una tensione crescente tra Russia e Occidente, fino alla guerra in Ucraina? È una questione controversa e non così scontata come viene raccontata”. Marco Carnelos, ex consigliere dei presidenti Prodi e Berlusconi, ex ambasciatore in Iraq ed ex inviato speciale per la Siria, affida a Dagospia le sue considerazioni sulla guerra In Ucraina.
DOMANDA L’Occidente promise alla Russia di non allargare la Nato a est?
RISPOSTA Alcune promesse verbali furono fatte. Ci sono anche alcuni documenti, prodotti da riunioni di alto livello, in cui si evidenzia come l’assunzione che c’era in quel momento storico fosse che la Nato non sarebbe andata oltre il confine della Germania, riunificata a ottobre 1990.
D – Chi si intestò questa rassicurazione?
R – L’allora Segretario di stato americano, James Baker. La sua promessa fu: “Not one inch eastward”, ovvero “non un centimetro più a est”. Dopodiché la storia è evoluta. Il Patto di Varsavia, l’alleanza militare che si contrapponeva alla Nato, nel 1991 s’è sciolto. Da quel momento Putin ha fatto presente in più di un’occasione: “Ma senza il Patto di Varsavia contro chi allargate a est la Nato?”.
D – Putin vuole ricreare una Grande Russia sul modello imperiale o sovietico?
R – Putin ha vissuto in Germania est nel 1989 e non sappiamo quanto il crollo del suo mondo abbia inciso psicologicamente su di lui. Nessuno può sapere se effettivamente la fine dell’Urss lo abbia segnato. Lo sa il suo analista, ammesso ne frequenti uno.
D – L’ambasciatore Massolo è convinto che a muovere Putin sia la voglia di rivincita, il bisogno di vendicare i torti che lui crede che la Russia abbia subìto… Lo dice perché da capo dell’Intelligence ha avuto dei resoconti specifici in tal senso o è una semplice speculazione, come la fanno tanti?
R – Io non credo che Putin sia pazzo. Le sue prese di posizione pubbliche mi sembrano coerenti, benché a tratti inaccettabili. Denotava problemi psichiatrici più seri Donald Trump, se vogliamo…
In Occidente fa comodo pensare che Putin abbia perso il senno per non dover riconoscere le sue ragioni?
È un tipico atteggiamento occidentale: chi non la pensa in un determinato modo, o ha altre categorie mentali, viene marchiato. “L’eccezionalismo americano” non contempla una diversità. È un riflesso culturale, che manca di “empatia cognitiva”: l’incapacità di mettersi nei panni degli altri. E poi ci sono schematismi tipicamente occidentali, fondati su valori diversi: “Quello è un dittatore”, “in quel paese manca la libertà”, o cose del genere.
Saranno anche assunzioni veritiere ma vanno contestualizzate, inserite in un disegno storico più ampio. Ad esempio, è difficile comprendere l’autocrazia di Putin se non si considera che la Russia non ha praticamente mai conosciuto la democrazia. La norma nella cultura politica russa è l’autoritarismo. Ma se guardiamo gli ultimi vent’anni anche noi in Occidente abbiamo qualche problema con l’esercizio della forza e la gestione del dissenso. Basti pensare a come sono stati talvolta repressi i “gilet gialli” in Francia. La brutalità, spesso gratuita, della polizia americana, sovente in assetto anti-sommossa, è documentata dai migliaia di fatti di cronaca. La complessità del mondo non può essere ricondotta a uno schema mentale binario e manicheo di buoni-cattivi.
D – Vale anche nel caso della guerra all’Ucraina?
R – La vicenda Ucraina non si può ridurre alle vicende iniziate il 24 febbraio 2022. Bisogna tornare al 3 ottobre 1990, giorno della riunificazione della Germania, e provare a capire come si sono sviluppati gli eventi da allora. In Italia chi opera i distinguo, provando a capire la realtà, anche nelle sue pieghe meno rassicuranti, viene troppo sommariamente etichettato come “putiniano”. È assurdo.
Partendo dal 1990, allora, quali eventi hanno portato all’attacco all’Ucraina?
Ci sono state azioni e omissioni da parte dell’Occidente, affiancate da responsabilità anche russe beninteso, che hanno alimentato le incomprensioni. Se si fosse provato a intavolare un dialogo serio non sarebbe mai scoppiato questo conflitto.
D – Quali sono le omissioni dell’Occidente?
R – Non voler capire che l’allargamento a est della Nato creava un problema alla Russia.
Per vent’anni, dal 2001, il paradigma di sicurezza americano si è basato nel contrasto al terrorismo islamico. L’ascesa della Cina e quella della Russia da un punto di vista militare hanno riorientato il dibattito strategico americano. A Washington si è preso atto che nuovi attori stavano minacciando la centralità statunitense: stava ripartendo una competizione tra grandi potenze. E queste grandi potenze, è evidente, si muovono per far valere i loro interessi sullo scacchiere internazionale.
D – Vale per gli Stati Uniti ma anche per Russia e Cina…
R – Certo. Pechino ha mostrato le sue “linee rosse”, da cui non intende indietreggiare (Taiwan, Hong Kong, lo Xinjiang), Mosca aveva i suoi imperativi: no all’allargamento della Nato a est e in particolare all’Ucraina. E per una ragione, anche storica: tutte le invasioni della Russia sono passate dall’Ucraina, da Napoleone a Hitler. Quel paese è una porta d’ingresso.
D – Sta dicendo che verso i russi l’Occidente si è comportato da “Marchese del Grillo”: io so’ io e voi…
R – Per quanto questo accostamento strida con la semantica propria della diplomazia debbo riconoscere che è corretto. Washington poteva farlo nel 1991 con la Russia a pezzi e la Cina che non aveva consolidato la sua forza economica e tecnologica. Ma dal 2012 le cose sono iniziate a cambiare. Pechino è cresciuta esponenzialmente e Mosca ha mostrato la sua insofferenza dopo il primo allargamento della Nato a est nel 1999. Eltsin comunicò a Clinton, vero responsabile del progetto, la sua contrarietà e fu ignorato. L’allargamento fu fatto senza alcuna ragione perché la Russia non minacciava più nessuno! Sì, era scoppiata la guerra in Cecenia ma abbiamo visto contro chi si combatteva: un gruppo di integralisti islamici che a Mosca hanno fatto saltare interi palazzi.
D – La Russia ha reso nota la propria frustrazione?
R – Altroché! Il 10 febbraio 2007 alla conferenza della sicurezza di Monaco Putin tenne un discorso durissimo, mostrando chiaramente la sua insofferenza verso gli allargamenti a est della Nato ma promettendo opposizione durissima agli allora ventilati ingressi di Ucraina e Georgia. Reiterò questa posizione al Vertice NATO di Bucarest dell’Aprile del 2008 dove potei constatare personalmente il suo livore. Per gli occidentali non si può limitare la sovranità degli stati imponendo loro di non entrare in un’alleanza. Bisognerebbe però prima spiegare l’alleanza Nato contro chi agisce. E poi esiste la realpolitik: prima della sovranità degli stati, talvolta, esiste l’inevitabile stabilità del sistema internazionale.
D – Cosa intende dire?
R – Ospite a “Di Martedì” Alessandro Di Battista ha provocato i suoi interlocutori dicendo: “Ma se domani il Messico, magari con un presidente filo-cinese, decidesse di installare sul suo territorio dei missili della Cina, gli americani cosa farebbero? Glielo permetterebbero?”. Nessuno ha risposto. Nel 1959 Cuba era diventata comunista dopo la rivoluzione con cui Fidel Castro aveva deposto Batista. Gli americani provarono a contrastarlo e non ci riuscirono. Fallirono innumerevoli tentativi di avvelenarlo. Nel 1961 andò male l’assalto alla Baia dei porci, organizzato dagli americani. Fino a quando nel 1962 Castro chiese aiuto all’Unione Sovietica. Decise di installare missili nucleari sul territorio cubano, gli americani reagirono con il blocco navale, minacciando la guerra nucleare, e a quel punto le navi sovietiche tornarono indietro.
D – E quindi?
R – La narrativa storica su questa vicenda, dal 1962 al 2012, è stata: Kennedy eroico ha sconfitto i sovietici. La realtà storica è diversa. Sì, i russi hanno fatto dietrofront e non hanno installato i missili. Ma ci fu un accordo segreto che obbligò gli americani a togliere i loro missili nucleari dalla Turchia, che allora confinava con l’Unione sovietica. Se guardiamo quella crisi, così come è stata raccontata, hanno vinto gli americani. Invece furono costretti a due concessioni: togliere i missili dal territorio turco e impegnarsi a non invadere Cuba. Ai sovietici bastò restare fermi, cioè non piazzare postazioni missilistiche all’Avana.
Nel 2012, Leslie Gelb, il presidente emerito del “Council of foreign relations”, il sancta sanctorum dei think tank americani, scrisse un articolo su Foreign Policy in cui disse: “E’ ora che sfatiamo il mito della crisi dei missili a Cuba”.
D – Sta dicendo che ognuno racconta la storia come vuole?
R – Pensi alla crisi di Monaco del 1938, quando Francia e Germania, per cercare di salvare la pace, siglarono un accordo con Hitler cedendogli la regione cecoslovacca dei Sudeti. Daladier e Chamberlain passarono per imbelli, incapaci di reagire alle pretese tedesche. Invece molti non sanno che la Gran Bretagna, nel ’38, non era pronta alla guerra contro la Germania.
Quell’accordo diede a Londra un ulteriore anno di tempo per armarsi, soprattutto con la costruzione di aeroplani, che le permise nel 1940 di vincere la battaglia d’Inghilterra sopra i cieli della Manica. La storia della Seconda guerra mondiale è cambiata nella primavera- estate del ’40 e leggendo i libri di Andreas Hillgruber, grande storico tedesco di quel periodo, si capisce che Hitler dopo la sconfitta nella battaglia d’Inghilterra era già convinto che la guerra fosse in qualche modo perduta. Quindi decise l’azione più folle di tutte, l’invasione dell’Unione sovietica. E senza l’Urss non avremmo mai vinto la guerra al nazi-fascismo. Sul fronte russo la Wermacht impiegò 500 divisioni corazzate. Contro gli alleati sbarcati nel ’44 ne impiegò 150. Chi ha retto l’urto tedesco, sul piano militare e delle vittime (20 milioni) è stata l’Unione sovietica. E queste cose Putin le sa, le ha studiate…
D – Le pretese di “Mad Vlad” non possono legittimarsi nei successi dell’Armata Rossa…
R – No. Ma va precisato che il Cremlino ha una sua visione su quello che dovrebbe essere l’assetto russo. Nel 2004 mentre l’Occidente applaudì alla “Rivoluzione arancione” in Ucraina in nome della democrazia, Putin ci vide una minaccia alla sicurezza russa. Nel 2008, al già citato Vertice NATO di Bucarest, Francia e Germania si opposero fermamente a far entrare Ucraina e Georgia nella Nato perché sapevano che la reazione di Mosca sarebbe stata durissima.
D – L’Europa conosceva da tempo i “cahiers de doleances” di Putin?
R – Quando nel 2013-2014 è emersa la volontà di Kiev di entrare nell’Unione europea, la Russia ha posto più di un problema. Ad esempio, l’Ucraina era legata alla Russia e al Kazakhistan da un accordo doganale, che prevedeva libera circolazione delle merci. Se l’Ucraina fosse entrata nell’Ue automaticamente dal confine ucraino sarebbero entrate merci nel mercato russo senza dazi né controlli, con un enorme danno economico per il Cremlino. E questo aspetto fu ignorato e furono minimizzate le riserve di Putin.
Senza contare i mal di pancia a Mosca per la cacciata del presidente filorusso Yanukovich. Gli storici un giorno diranno se quella del 2014 fu una rivolta popolare o un colpo di stato. Quel che è certo, è che ci sono le registrazioni portate dai russi dell’Assistance Secretary of State americana, Victoria Nuland, che davanti alle perplessità degli europei per la rivolta a Kiev diceva: “Che si fottano gli europei”.
D – Come reagì la Russia?
R – Invase la Crimea e incoraggiò le due repubbliche separatiste nel Donbass.
È il periodo in cui il Cremlino si lagnava della “russofobia” occidentale.
Non solo gli americani ma anche i polacchi, i bulgari, i romeni, le repubbliche baltiche hanno continuato a vedere la Russia come una minaccia, proprio mentre Mosca ribadiva la necessità di non allargare a est la Nato. In questa storia nessuno è innocente.
D – Tranne la povera popolazione ucraina.
 R – Negli ultimi 8 anni, dal 2014 quando furono siglati gli accordi di Minsk, poco o nulla si è fatto. L’Ucraina doveva riformare la Costituzione, garantire il bilinguismo ai russi e riconoscere autonomia alle repubbliche del Donbass e invece, apparentemente, non ne ha voluto sapere. E poi la Crimea è sempre stata russa: la diede Kruscev all’Ucraina negli anni ’50. E poi non si è voluto capire il significato storico-culturale-identitario che quel paese ha per i russi: l’identità russa è nata mille anni fa proprio in Ucraina. Si chiamava “Rus’ di Kiev” lo stato slavo nato nel 1054 che comprendeva territori che oggi fanno parte di Ucraina, Russia occidentale, Bielorussia, Polonia, Lituania, Lettonia ed Estonia orientali. L’identità russa non è nata a Mosca ma a Kiev.
D – Gli Stati uniti hanno voluto l’allargamento a est della Nato e hanno scientemente fatto in modo che le tensioni successive, dal 2008 a oggi, restassero senza soluzione?
R – Lo stesso hanno fatto alcuni leader europei, che avrebbero dovuto essere i primi a preoccuparsi della questione Russia-Ucraina. Avrebbero dovuto operare per pervenire alla neutralità dell’Ucraina, impedendone l’ingresso nella Nato. In cambio avrebbero potuto aprire alla sua entrata nell’Unione europea, processo che avrebbe richiesto comunque anni, per il rispetto dei parametri necessari. A quel punto, forse, un negoziato con la Russia si poteva intavolare. Senza dimenticare che l’Ucraina è un paese pieno di contraddizioni politiche, dove la presenza di formazioni neonaziste è accertata. Non è una fake news. E non è da escludere che Zelensky possa aver subìto pressioni da queste formazioni. Quando fu eletto, avrebbe dovuto essere il presidente del dialogo con la Russia. E invece… L’anglo-sfera (Stati Uniti, Canada, Gran Bretagna) ha una linea durissima contro Mosca, nonostante le sue contraddizioni. Negli Stati uniti, poi, negli ultimi dieci anni, la Russia è tornata a essere una minaccia con i democratici americani convinti che le elezioni, nel 2016, Trump le abbia vinte perché è stato aiutato da Putin. Che appare inverosimile. La Gran Bretagna, che spinge per la linea dura contro il Cremlino, per anni ha fatto ponti d’oro agli oligarchi russi che portavano soldi e investimenti a Londra drogandone il mercato immobiliare. E le sanzioni economiche imposte alla Russia hanno come unico obiettivo far collassare l’economia per aizzare una rivolta interna contro Putin.
D – Con le tensioni tenute latenti per anni, Washington ha spinto Putin a commettere un errore fatale. Era un trappolone?
R – E ci è cascato con tutte le scarpe. Ma nella mente di Putin le cose funzionano diversamente. A lui non interessa più mantenere un rapporto con l’Occidente, di cui non si fida più. A lui preme la Russia profonda, che è ancora con lui. E non confondiamo il punto di vista dei cittadini di Mosca e San Pietroburgo con il resto del paese. E come se un giornalista tentasse di spiegare l’America soltanto da New York o Los Angeles. L’Occidente andrebbe in crisi isterica senza Netflix o McDonald’s, la Russia probabilmente no. Putin, che da anni credo abbia maturato questa diffidenza verso Ue e Usa, deve aver pensato che fosse questo il momento storico giusto per l’invasione. Ha visto gli americani battere in ritirata dall’Afghanistan, il presidente Biden in crisi di consenso, un’Europa divisa. Se abbia fatto bene i suoi calcoli, lo vedremo.
D – Che errori ha commesso Putin negli ultimi 30 anni?
 R – Non ha varato riforme significative per fare della Russia un paese moderno, sottraendo l’economia alle grinfie degli oligarchi. Anche dal punto di vista delle libertà fondamentali: l’Occidente si aspettava molto più coraggio. Certo, sono cambiamenti che sarebbero andati contro il dna russo, così abituato all’autoritarismo. Sicuramente Putin avrebbe potuto dovuto offrire un’immagine di una Russia democratica, più rassicurante e tranquillizzante per i suoi vicini di casa. Soprattutto i paesi ex sovietici. E non lo ha fatto, anzi. Dagli omicidi di giornalisti e dissidenti, alle svolte repressive: la Russia non ha fatto niente per farsi amare. Poi certo, si è innestata la nostra solita ipocrisia: abbiamo tenuto un occhio chiuso visto che Mosca ci riforniva di gas e le nostre aziende esportavano.
Dall’omicidio di Anna Politkovskaja agli avvelenamenti al polonio, tutti sapevano cosa stesse accadendo in Russia. Eppure, nessuno s’è mai sognato di chiudere i rapporti con Putin…
In Italia, nessuno. In Germania, idem. In Gran Bretagna e Stati uniti il sentimento era diverso. Negli anni si è evoluto in modo sempre più negativo.
D – Putin non si è mosso solo “in casa”. È intervenuto in Libia e in Siria.
 R – Sono stato inviato speciale per la Siria e ricordo bene che Putin sosteneva che a Damasco fosse in corso un tentativo di rovesciare un regime per portare al potere gli integralisti islamici. Era convinto che dalla Siria sarebbe partito un “contagio” fondamentalista verso il Caucaso che avrebbe infiammato le minoranze musulmane in Russia. L’Occidente invece ha visto solo l’inaccettabile sostegno al dittatore sanguinario Assad. Purtroppo il contesto era molto più complicato, anche se questo non assolve nessuno dai crimini che non stati commessi anche in quel Paese. Su questo punto, l’Occidente alimenta le sue ipocrisie. Ad esempio, di quello che stanno facendo l’Arabia saudita e gli Emirati nello Yemen non si parla mai: una vera catastrofe umanitaria. Che non è narrata dai media, forse perché Washington e Londra sono alleate di Riad a cui vendono armi. E poi i profughi ucraini, biondi con gli occhi azzurri, forse appaiono “biologicamente più gradevoli” di quelli yemeniti che hanno la pelle scura. Trovano più consenso e copertura mediatica. Eppure, i profughi sono tutti uguali. Con queste distinzioni si fatto le democrazie occidentali non ci fanno una bella figura. I nostri conclamati valori devono essere rispettati sempre, non solo quando conviene. Rimproveriamo a Putin la censura del dissenso e poi le grandi corporation, tipo Youtube, Twitter o Facebook, censurano allo stesso modo. È il doppio standard. Non è sostenibile un sistema internazionale stabile dove ci sono delle regole che per alcuni valgono e per altri no.
Se si considera necessaria la neutralità dell’Ucraina (mai nella Nato) per il bene dell’Europa e della sua sicurezza, implicitamente si riconosce che l’autodeterminazione dei popoli debba essere subordinata a esigenze di politica internazionale più ampie…
Alcuni fattori, ahimé, finiscono per incidere sulla stabilità complessiva del sistema internazionale. Bisogna tenerne conto. Questo purtroppo vale per i tibetani in Cina, per i Palestinesi in Terra Santa e per i Curdi in Turchia, Siria, Iraq e Iran.
D – E chi lo decide?
R – Teoricamente il Consiglio di sicurezza dell’Onu, sulla base di quello che è stato stabilito nel 1945.
D – Con il meccanismo del diritto di veto, il Consiglio è sempre ingessato…
R – È questo l’ordine che si è creato dopo la Seconda guerra mondiale. Non va più bene? Lo si cambi. Ci sono state anche situazioni in cui il Consiglio ha votato all’unanimità. Come nel 1990, quando si doveva decidere se intervenire contro l’Iraq dopo la decisione di Saddam Hussein di invadere il Kuwait. Nel 2003, quando gli americani hanno invaso l’Iraq quella risoluzione unanime non l’hanno avuta. Hanno provato in tutti i modi a farsela dare ma Russia e Francia si opposero. Dissero chiaramente che se fosse stata portata la risoluzione in Consiglio avrebbero posto il veto. E gli americani attaccarono lo stesso.
D – Con Colin Powell che il 5 febbraio 2003 sventolò all’Onu una provetta con le presunte “armi chimiche” nelle mani del regime di Saddam Hussein. Il 20 marzo gli americani invasero l’Iraq.
R – A dimostrazione che, quando serve, una legittimazione alla guerra si trova. Ma bisogna distinguere tra legittimità e legalità. Ci sono guerre che appaiono “legittime” senza copertura legale. Viceversa, altre che hanno la copertura legale ma sono percepite come illegittime.
D – Per la Russia la guerra in Ucraina è legittima.
R – Putin ha invocato l’articolo 51 della Carta, quello che riguarda l’autodifesa. Sostiene di avere cittadini russi nel Donbass minacciati dai bombardamenti di artiglieria ucraini. Dal suo punto di vista ha invaso per difendere i suoi cittadini. Negli ultimi 8 anni, nelle repubbliche separatiste del Donbass, ci sono stati 16 mila morti. Non ne ha parlato nessuno. E la maggioranza dei morti, sembra, siano russi. Bisogna allargare un po’ il quadro per avere un giudizio più equilibrato.
D – Per Kiev è uno scenario da incubo: deve subìre e non fiatare?
R – Se a eccepire sullo status dell’Ucraina fosse stato l’Azerbaijan, non sarebbe fregato a nessuno. Diventa un problema perché c’è di mezzo la Russia, potenza nucleare e membro permanente del Consiglio di sicurezza. Perché l’autodeterminazione di Cuba nel decidere di installare sul suo territorio missili nucleari sovietici non poteva essere accettata? Perché gli Stati uniti d’America non l’avrebbero permesso. Perché l’autodeterminazione dei palestinesi non può essere accolta, ancorché riconosciuta da un’infinità di risoluzioni Onu? Perché c’è di mezzo Israele, che ha le sue esigenze di sicurezza.
D – E se la Cina decidesse di dare seguito militare alle sue pretese su Taiwan?
R – È una situazione ancora più delicata di quella esistente tra Russia e Ucraina. Fino al 24 febbraio 2022, Mosca non ha mai messo in discussione l’esistenza di uno stato indipendente ucraino. Semmai si è opposta al suo ingresso nella Nato. La Cina considera Taiwan parte integrante del proprio territorio e, dal punto di vista internazionale, nessuno ha formali relazioni diplomatiche con l’isola (nemmeno gli Stati Uniti!) che non è neanche membro delle Nazioni Unite.
Fino agli anni 70’ il seggio della Cina all’Onu era occupato da Taiwan. Poi il disgelo sino-americano, ispirato da Nixon, ha ribaltato lo scenario: gli americani hanno buttato fuori Taiwan e ci hanno messo la Cina, concedendole anche il diritto di veto. Poi Pechino è cresciuta fino a diventare una potenza economica, tecnologica e commerciale e questo a Washington non è piaciuto perché metteva in discussione la sua leadership o egemonia.
D – La Nato è a tutti gli effetti una sfera d’influenza…
R – Certo. Con l’errore, commesso spesso in Occidente, di considerare la Nato un organismo di legittimazione giuridica internazionale. Quando è invece l’Onu, con le sue risoluzioni votate dal Consiglio di sicurezza, ai sensi del capitolo 7 della Carta riguardante le minacce all’ordine e alla sicurezza internazionale, a rendere la guerra “legale”. La Nato è un’alleanza militare occidentale e quello che stabilisce non è diritto internazionale. Non “produce” diritto come l’Onu né dirime sulle controversie come fanno le Alte Corti internazionali, salvo se i 5 membri permanenti del CdS concordano.
D – Quindi, cosa bisognerebbe fare con l’Ucraina?
R – Uno stato a sovranità limitata, purtroppo, per salvaguardare la sua popolazione e le sue infrastrutture risparmiandogli ulteriori sofferenze e distruzioni. Come d’altronde sono, per certi versi (inutile che ce lo nascondiamo) l’Italia e altri paesi europei. Putin ha sollevato il problema ucraino da quasi un ventennio ma tutti se ne sono infischiati. O hanno ritenuto che la situazione non potesse essere affrontata nei termini richiesti da Mosca. E siamo arrivati alla guerra. Ora l’Ucraina potrebbe essere addirittura smembrata.
D – Bisognava accettare le prepotenze russe?
R – È una prepotenza che, nel corso degli ultimi 30 anni, si è alimentata per tutta una serie di omissioni che forse andavano messe sul tavolo e risolte. Ma la “prepotenza” in politica internazionale ricorre costantemente. Pensi agli Stati Uniti: in 250 anni di storia hanno fatto guerre ovunque. Hanno salvato l’Europa dal nazifascismo ma hanno condotto pure guerre imperiali che potevano essere evitate. La “Brown University” di Providence ha un programma che permette di censire i danni delle guerre americane nel mondo. Dal 2001, si stima, che le guerre americane in Medioriente e Afghanistan abbiano provocato quasi un milione di morti e 38 milioni di profughi. Senza contare le conseguenze politiche e gli 8 mila miliardi di dollari spesi. Magari parliamone.

UCRAINA. LETTERA APERTA AL PRESIDENTE DELLA REPUBBLICA ON. SERGIO MATTARELLA

Signor Presidente,
Lei ieri si è pronunciato fermamente contro l’esecrabile guerra di cui è vittima l’Ucraina. Lo ha fatto con parole nette, queste: “La nostra responsabilità di cittadini, di europei, ci chiama oggi a un impegno più forte per la pace, perché si ritirino le forze di occupazione e si fermino le armi, perché sia ripristinato il diritto internazionale e siano rispettate le sovranità nazionali.
L’indifferenza di fronte all’arbitrio, alla sopraffazione è uno dei mali peggiori. In gioco non c’è soltanto la già grande questione della libertà di un popolo, ma la pace, la democrazia, il diritto, la civiltà dell’Europa e dell’intero genere umano.
[…] Non è tollerabile – e non dovrebbe essere neppure concepibile – che, in questo nuovo millennio, qualcuno voglia comportarsi secondo i criteri di potenza dei secoli passati; pretendendo che gli Stati più grandi e forti abbiano il diritto di imporre le proprie scelte ai paesi più vicini, e, in caso contrario, di aggredirli con la violenza delle armi. Provocando angoscia, sofferenze, morti, disumane devastazioni”.
Sono parole, sono concetti, che condivido totalmente perché mi hanno sempre ispirato nella vita, spingendomi a schierarmi contro ogni guerra di aggressione che dal 1960 (quando ho iniziato giovanissimo a fare politica) abbia infierito in qualsiasi parte del nostro pianeta: contro tutte le guerre, con determinazione, con coerenza, sempre.
Ecco, Signor Presidente: con coerenza. La coerenza che consente a me, e a tanti altri come me, di denunciare oggi la guerra scatenata dalla Russia contro l’Ucraina come abbiamo fatto in passato contro le altre, senza dimenticare la storia dell’ultimo trentennio (almeno) né, in particolare, tutti gli anelli della lunga catena di guerre che hanno preceduto l’attuale, in cui l’Italia stessa è stata più volte coinvolta. Ricordo, una per tutte, la seguente.
Ricorrerà tra pochi giorni il 23° anniversario dell’inizio della “Operazione Allied force” scatenata dalla Nato contro la Serbia. Guerra definita “umanitaria” da chi la scatenò. Guerra invece di aggressione, sotto tutti i profili. Guerra illegittima, che violava il diritto internazionale, che violava lo stesso Patto Atlantico (in particolare artt. 1, 3, e lo stesso 5); che violava lo Statuto dell’Onu (art. 51); che violava la Costituzione italiana (art. 11). Guerra che durò 71 giorni (speriamo che quella di Ucraina duri meno); che vide utilizzare nei bombardamenti contro la Serbia ogni sorta di ordigno bellico (comprese le bombe all’uranio impoverito, di cui quelle popolazioni patiscono ancora oggi le conseguenze, quelle a grappolo e quelle alla grafite, con l’esclusione soltanto di quelle nucleari) in 38.000 missioni aeree; che provocò vittime militari e civili stimate in un numero superiore a 12mila persone di ogni età (speriamo che quelle della guerra contro l’Ucraina siano inferiori); che colpì infrastrutture civili di ogni tipo: strade, ponti, ferrovie, aeroporti, la sede della televisione, la stessa ambasciata cinese a Belgrado (con tre morti)…; che devastò la capitale della Serbia; che causò centinaia di migliaia di profughi.
Ecco, Signor Presidente: A QUELLA GUERRA PARTECIPO’ ATTIVAMENTE ANCHE LA REPUBBLICA ITALIANA. LO DECISE UN GOVERNO DI CUI LEI ERA VICE PRESIDENTE DEL CONSIGLIO, con delega ai servizi di sicurezza. Quello che Lei oggi definisce, con un giudizio che faccio mio, “non tollerabile” fu allora non tanto tollerato quanto voluto anche dal governo italiano. E gli “Stati più grandi e forti” – quanto più forti! – ritennero allora di avere il “diritto” di “imporre le proprie scelte […] con la violenza delle armi” alla Serbia, calpestando la “sovranità nazionale” di un popolo collocato al centro della “civiltà dell’Europa”.
Suppongo, Signor Presidente, che la citazione del Suo discorso che ho riportato abbia inteso essere un’implicita autocritica per avere condiviso a suo tempo, in una funzione diversa dall’attuale, la responsabilità della guerra di aggressione alla Serbia. Le confesso, tuttavia, che avrei gradito che quell’autocritica fosse più esplicita. Una maggiore chiarezza avrebbe sicuramente dato maggiore incisività e l’indispensabile credibilità alle Sue giuste parole, avrebbe allontanato dalle Istituzioni l’accusa di doppiopesismo che una parte dell’opinione pubblica rivolge a esse, con ciò consolidando di fronte a tutti gli Italiani anche il prestigio di cui meritatamente gode, e deve godere, la Presidenza della Repubblica.
Buon lavoro, Signor Presidente!
Severino Galante (ex parlamentare della Repubblica italiana)