Trump e i titoli del Tesoro a rischio

di Mario Lettieri* e Paolo Raimondi**

Trump continua a sostenere che “il resto del mondo, a cominciare dall’Europa, dal dopoguerra in poi, avrebbe approfittato degli Stati Uniti. Gli Usa avrebbero pagato per tutto, a cominciare dalla sicurezza, mentre gli altri, in primis gli europei, facevano la bella vita alle loro spalle”. Forse è il caso di ribaltare questa narrazione!

Anzitutto è opportuno ricordare che per decenni gli Stati Uniti hanno goduto di un vantaggio nella finanza globale, grazie allo status del dollaro come principale valuta di riserva mondiale. Gli altri paesi, con un surplus commerciale con gli Usa, hanno accumulato riserve in dollari, che, tra l’altro, hanno investito largamente nei titoli del Tesoro americano.

La progressiva perdita del dominio industriale americano ha molte cause che non possono, però, essere imputate a chi ha investito e lavorato meglio. Se viene meno la leadership tecnologica e scientifica e si perde di competitività, le ragioni vanno ricercate nel tessuto produttivo e sociale di ciascun paese. Per gli Usa si aggiunga l’irrazionale delocalizzazione delle imprese guidate dalla massimizzazione di un profitto facile.

Contemporaneamente, gli spostamenti finanziari citati hanno permesso agli Usa di finanziare crescenti deficit di bilancio federali. Nel 2024 il deficit è stato del 6,4% del pil. In altre parole, il resto del mondo ha finanziato il debito pubblico americano in continua espansione. Questo sistema si è retto, e si regge, sulla presunta stabilità dell’economia americana e del dollaro. In verità molti eventi ne hanno minato l’affidabilità, a cominciare dalla Grande Crisi finanziaria del 2008-9. Anche le crescenti preoccupazioni per le sanzioni internazionali e i congelamenti degli asset da parte degli Stati Uniti hanno provocato il calo della domanda estera di asset denominati in dollari.

Questa tendenza è particolarmente evidente in Cina, storicamente il secondo maggiore detentore estero del debito pubblico statunitense dopo il Giappone. Con la riduzione del suo surplus commerciale con gli Usa, la strategia cinese d’investimento internazionale è cambiata. Di conseguenza, le partecipazioni cinesi in titoli del Tesoro americano sono diminuite da 1.270 miliardi del 2015 a 759 del 2024. Anche le riserve estere totali della Cina sono diminuite, passando da 3.800 miliardi di dollari del 2014 a 3.200 miliardi di oggi. La Cina non ha, però, rotto con il dollaro, ha puntato su altri asset denominati in dollari, come investimenti azionari (30,6% del totale degli asset esteri nel 2024) e altri strumenti di debito (25%).

L’Europa ha coperto il buco. Le partecipazioni del Regno Unito in titoli del Tesoro statunitensi, che ammontavano a 207 miliardi di dollari un decennio fa, sono più che triplicate raggiungendo all’inizio del 2025 circa 740 miliardi. Lo stesso vale per le partecipazioni dei paesi dell’Ue che nello stesso periodo sono cresciute da 931 miliardi a oltre 1.500. L’aumento della domanda deriverebbe da investitori privati ​​in cerca di rendimenti più elevati.

Tuttavia, per i paesi al di fuori della cerchia degli alleati dell’America, in rapida contrazione, detenere debito statunitense sta diventando meno attraente. Nuove contrazioni potrebbero spingere i rendimenti del Tesoro verso l’alto, indebolire il dollaro e minacciare la stabilità finanziaria internazionale. Per il momento nessuno auspica lo sconquasso repentino del sistema basato sul dollaro.

Ciò, però, ci porta nuovamente a riflettere sulle elucubrazioni del cosiddetto Accordo Mar-a-Lago di cui abbiamo recentemente scritto. Il progetto di indebolire il dollaro, per far crescere le manifatture e l’export americani, sta provocando un aumento dei tassi d’interesse sui titoli del Tesoro e di conseguenza anche del debito. Si tenga presente che nel 2025 gli interessi sul debito pubblico saranno di oltre 950 miliardi di dollari.

Inoltre, la politica dei dazi rischia di produrre una guerra commerciale di cui una conseguenza sarebbe certamente l’indebolimento dell’attrattiva e del ruolo del dollaro.

L’Amministrazione Trump sta giocando con il fuoco mettendo in campo un ricatto pericoloso. Sta replicando lo scenario del “chicken game”, portare cioè la sfida al livello massimo confidando che l’altro, il potenziale avversario, ceda per paura dello sconquasso totale, incontrollabile.

Negli scenari del “chicken game” si esclude sempre l‘evento che si ritiene estremo. Ma se non fosse così? Se gli investitori globali abbandonassero il debito sovrano statunitense, lo status del dollaro, come principale valuta di riserva mondiale, sarebbe messo in discussione. E se le svendite di T-bond generassero un effetto valanga non previsto? Sono rischi troppo grandi, perciò ci sembra irresponsabile insistere.

*già sottosegretario all’Economia **economista

Paradossi insostenibili

Per me Putin dovrebbe smettere di negoziare con Trump. Non dovrebbe far vedere che si sente debole e ha bisogno di lui. Non dovrebbe dare troppa corda a uno che chiaramente è inaffidabile. Anche se riuscisse a ottenere un negoziato vantaggioso su un aspetto marginale, non potrebbe avere alcuna certezza che gli USA lo rispetterebbero. Come si fa a patteggiare con uno che dice cose assurde o che si contraddice nel giro di pochi giorni?
Gli USA sono dietro il sabotaggio del Nordstream, dietro gli attacchi missilistici o di droni sul territorio russo, dietro tutti gli attentati terroristici contro persone e strutture civili della Russia, del Donbass e della Crimea, poiché senza un’intelligence sofisticata tutto ciò non sarebbe stato possibile, e l’Ucraina non la possiede. Loro stessi han detto che se bloccassero l’invio di armi e soprattutto le informazioni provenienti dai satelliti, gli ucraini perderebbero la guerra quasi immediatamente.
A che pro discutere con un Paese che è parte in causa in maniera così diretta? Qui, con questi strumenti, non è neanche il caso di parlare di guerra per procura. Certo, manca un’esplicita dichiarazione di guerra, ma è inutile formalizzarsi sul piano giuridico. Oggi queste dichiarazioni non si fanno più: non esiste un codice d’onore in presenza di governi che non rispettano la democrazia al proprio interno. Se la NATO o gli USA o la UE non vogliono far vedere d’aver perso la guerra, il problema non è della Russia. Sono gli sconfitti che devono trovare le parole o i mezzi per uscirne fuori. Certo, se avessero un minimo di dignità, tutti gli statisti guerrafondai dovrebbero dimettersi. Finché non lo fanno, la guerra non può che continuare, e le pretese di Trump di concluderla in pochissime settimane sono solo delle battute da bar, non meno ridicole di quanti in Europa sono convinti di poter ancora vincere.
I negoziati di pace andrebbero fatti tra Russia e Ucraina, all’ovvia condizione che le istituzioni di Kiev abroghino il decreto che impedisce di stabilirli, e decidano di indire nuove elezioni parlamentari e presidenziali, aperte a tutti i partiti: fare la pace con persone o istituzioni i cui mandati sono scaduti non ha senso.
Quanto ai Paesi occidentali, se vogliono partecipare ai negoziati, devono preventivamente cambiare dirigenza politica e dichiarare ufficialmente che non forniranno più all’Ucraina l’assistenza militare e satellitare, né chiederanno più che entri nella NATO. Inoltre tutti gli istruttori, i consulenti e i mercenari vanno ritirati. Qui a tutto l’occidente e agli stessi ucraini dovrebbe essere ben chiara una sola cosa: se la guerra va avanti così, l’Ucraina finirà col perdere qualunque autonomia, scomparirà come Stato indipendente.
Noi comunque stiamo vivendo una situazione paradossale: i russi vorrebbero commerciare con gli europei, ma gli europei per motivi ideologici glielo impediscono. Gli americani impongono agli europei condizioni commerciali incredibilmente onerose e gli europei, siccome si sentono vicini a loro per motivi ideologici, glielo permettono.
Gli europei han perso la guerra per procura coi russi senza subire particolari danni sul piano militare: gli unici veri danni li hanno subiti sul piano economico, ma perché le sanzioni imposte ai russi si sono ritorte contro di loro. Ora però hanno intenzione di riarmarsi pesantemente per subire danni d’incalcolabile portata anche sul piano militare, in quanto un’eventuale guerra contro la Russia sarà necessariamente nucleare.
Gli europei avrebbero voluto condividere con gli americani la sconfitta della guerra per procura, visto che tutti facciamo parte della NATO, ma gli americani han deciso di riprendere i rapporti commerciali coi russi (tant’è che li hanno esclusi dai dazi) e di far pagare agli europei le conseguenze di tale sconfitta, smettendo di commerciare con loro ad armi pari e obbligandoli a spendere il 5% del PIL per la NATO, altrimenti loro se ne usciranno.
A questo punto, se gli europei avessero statisti intelligenti dovrebbero dire: “Togliamo ai russi tutte le sanzioni, aggiustiamo il Nordstream e riprendiamo i commerci con loro alle condizioni che vorranno.”
Se poi fossero davvero lungimiranti, dovrebbero dire: “La NATO ce la paghiamo da soli, al costo che decidiamo noi, e gli americani non li vogliamo, visto che loro non ci vogliono come partner economici”.
Se poi fossero davvero coraggiosi, anzi spregiudicati, dovrebbero dire: “D’ora in avanti tutti i Paesi europei sono liberi di chiedere l’adesione ai BRICS, senza per questo dover per forza uscire dalla UE”.