Diritto e Stato nella Russia socialista

La domanda, cui hanno cercato di dare una risposta i teorici marxisti del diritto degli anni ’20 e ’30 in Russia, era la seguente: si può elaborare un diritto socialista più democratico di quello borghese, in grado di sussistere per un tempo non definibile, oppure la presenza stessa del diritto indica che la società non si è ancora sufficientemente democratizzata? In tal caso quali sono le condizioni per cui, pure in presenza del diritto e quindi dello Stato, si può ugualmente pensare che un progresso della democrazia socialista comporterà l’estinzione sia dello Stato che del diritto?

Nell’ambito del marxismo classico si è sempre sostenuto che il diritto, come la politica, è sorto col nascere delle classi e dello Stato. Il diritto – si diceva – è la volontà della classe dominante sancita in legge e, come tale, serve per opprimere le classi non proprietarie. Sicché gli schiavisti lo usavano contro gli schiavi, i feudatari contro i contadini e oggi i borghesi lo usano contro i proletari. Nelle società pre-socialiste il diritto è sempre servito per difendere la proprietà privata dei mezzi produttivi.

Qualunque marxista sostiene che, agli albori della storia umana, l’osservanza delle norme comuni era garantita non dal diritto coercitivo, ma dalle tradizioni, dall’educazione, dal senso comune del collettivo e dal gruppo di anziani che lo gestiva: non avrebbe certo avuto senso parlare di “diritti e doveri” in riferimento al comunismo primitivo.

Solo col tempo, quando si sono formate delle classi, la forza dell’autorità morale del collettivo è stata sostituita con l’autorità della forza materiale dei singoli proprietari. Il diritto appare insieme all’ineguaglianza nella ripartizione dei beni, quando cioè una minoranza sfruttatrice non può mantenere il proprio dominio economico e politico senza ricorrere alla forza dello Stato e del diritto, i quali, il più delle volte, vengono fatti passare per elementi neutrali, equidistanti rispetto agli interessi delle classi contrapposte. Il diritto “classista”, infatti, si pone come diritto unico, sebbene suddiviso nelle sue varie tipologie: pubblico, privato, costituzionale, tributario, commerciale, ecc. La preoccupazione delle classi dominanti è sempre stata quella di mostrare che loro stesse sono sottoposte alle leggi, in quanto la legge è uguale per tutti.

Quando si realizzò la rivoluzione bolscevica, si arrivò, ad un certo punto (con la nascita dello stalinismo), a fare un discorso diverso. Vishinskij infatti sosteneva che in uno Stato socialista il diritto è indispensabile, in quanto serve a tutelare le conquiste rivoluzionarie, che sono quelle della stragrande maggioranza dei cittadini. Tutelarle contro chi? – ci si poteva chiedere, visto che il nemico interno è già stato sconfitto. Tutelarle contro il nemico esterno, cioè contro quei paesi che vogliono la fine del socialismo e che possono servirsi di “collaborazionisti” all’interno dello Stato socialista.

L’aspetto singolare di questa posizione è che si riteneva possibile, anzi necessario, elaborare un diritto proletario proprio in nome dello Stato socialista, appunto perché la proprietà era stata statalizzata. Cioè il partito comunista si serviva di un organo tipicamente “borghese”: lo Stato (con tutto il suo apparato coercitivo) per realizzare un diritto democratico. Invece di sostenere che diritto e Stato andavano progressivamente e parallelamente smantellati, a favore dell’autogoverno popolare, il partito usò entrambi gli elementi per negare la possibilità di questo autogoverno. Non solo, ma per dimostrare la giustezza del proprio operato, si servì, come pretesto, del fatto che il socialismo era circondato da vari paesi capitalisti intenzionati a distruggerlo, come già avevano cercato di fare durante la rivoluzione, sostenendo le Armate bianche, e con l’interventismo armato subito dopo la fine della prima guerra mondiale.

È inspiegabile come la maggioranza dei comunisti sovietici abbia potuto pensare che la democrazia si sarebbe sviluppata grazie all’uso di due strumenti (Stato e diritto) nati in funzione anti-democratica. Evidentemente si era convinti che quello fosse l’unico modo per difendersi dai nemici esterni. Tuttavia questo può significare soltanto una cosa: che alla fine degli anni ’20 la rivoluzione era già fallita. Essa cioè non aveva in sé gli elementi sufficienti (né pratici né teorici) per un proprio svolgimento democratico. Praticamente si era convinti che, concedendo l’autogoverno al popolo, questo l’avrebbe usato per ripristinare il capitalismo o addirittura il feudalesimo nelle campagne. Cioè si pensava che, siccome il capitalismo è una realtà esterna molto forte, sarebbe stato impossibile al socialismo sopravvivere senza una direzione centralizzata (statalizzata) dell’intera economia.

In altre parole il governo in carica non si era fidato della propria popolazione e aveva agito in maniera, per così dire, paternalistica e quindi autoritaria. E in questo proprio autoritarismo ha finito col compiere gravissimi eccidi di massa nel mondo rurale, introducendo il terrorismo di stato nei confronti di chiunque, eliminando tutti gli intellettuali non allineati: in una parola comportandosi come la chiesa romana al tempo dell’Inquisizione e della Controriforma.

3 commenti
  1. controcorrente
    controcorrente says:

    Caro Enrico,

    il fallimento della Rivoluzione d’Ottobre era già contenuta nel banale presupposto che l’Assalto al Cielo si era ristretto all’assalto dei cieli della Russia,che per quanto grande fosse non erano certo i cieli del Mondo.
    Qui bisognerebbe fare un passo indietro rispetto al contenuto globale del tuo Post.
    Ovvero dare a Marx ciò che è di Marx,a Lenin ciò che è di Lenin, e alle scuole marxiste seguenti ciò che è loro !
    E a Engel ciò che è di Engel (Antiduhring )
    In particolare ai marxisti occidentali !
    In questo ultimo caso mi limiterei a citare solo i seguenti nomi :

    Gyorgy Lukas,Karl Korsch,Ernst Bloch,Antonio Gramsci, prima e dopo Walter Benjamin,Jan Paul Sartre,Louis Althusser,Herbert Marcuse ,Adorno,Horkheimer per finire ad Habermas,, ma qui siamo già fuori rotta..
    Questa sequenza mi pare corretta ed è stata da me tratta da un’interessante testo :” Bentornato Marx” autore Diego Fusaro saggi Bompiani, con il quale si può essere in accordo o meno, ma almeno si è preso la briga di ..mettere un pò di ordine..nella sequela di interpretazioni varie.
    Questo mi pareva corretto premettere al fine di arrivare al nocciolo della questione e chiarire che a volte si fa confusione tra Marx e marxismi e Comunismo e Bolscevismo e socialismo reale, che non rende merito al massimo demerito a tutti.
    Io penso questo e sposo una frase di Sartre,(anche se non è tra i miei preferiti) che in Critica della Ragione Dialettica afferma :

    Il marxismo è ancora giovanissimo,quasi nell’infanzia..ha appena cominciato a svilupparsi .Esso rimane dunque la filosofia del nostro tempo è insuperabile perché le circostanze che l’hanno generato non sono ancora superate. I nostri pensieri ,quali che siano,non possono formarsi che su questo humus,devono contenersi nella struttura che esso fornisce loro o perdersi nel vuoto o retrocedere.

    Ad una prima lettura sembrerebbe un’ingessatura del pensiero di Marx e come sappiamo Marx fu di tutto, meno che un marxista e non volle mai leggere sfere del futuro o pensare di pensare ad un pensiero non dialettico nel futuro.
    Quindi la domanda da porci è la seguente : Le circostanze di cui parla Marcuse ,sono superate o meno.E quando si parla di circostanze in questo “contesto” mi par chiaro riferirsi alle contraddizioni del Capitalismo come sistema economico.
    Direi quindi buona fortuna ai cimentatori, senza però fare improprie confusioni.

    Contocorrente

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