Metafora dello specchio

I

Quando ci guardiamo allo specchio, ci riconosciamo perché siamo abituati a un certo volto; e siamo abituati a vederlo mutare, seppure così lentamente che spesso non ci ricordiamo come eravamo venti, trent’anni prima. Se mutassimo all’improvviso, forse la memoria sarebbe migliore. Invece così facciamo abitudine a un mutamento progressivo, quasi convinti d’essere sempre gli stessi.

Ci riconosciamo per abitudine, grazie allo specchio. Ma se in casa nostra ne fossimo privi, noi non potremmo riconoscerci da soli: avremmo bisogno che altri lo facessero per noi. Sarebbe un riconoscimento reciproco, della e nella collettività domestica: ognuno riconoscerebbe l’altro e ognuno, di conseguenza, riconoscerebbe se stesso. Riconosceremmo la nostra identità personale in quanto appartenenti a un gruppo.

Lo specchio è stato dunque un’invenzione della cultura individualistica, di quella forma di libertà che induce le persone a riconoscersi da sé, nella propria individualità, che è, in tal caso, sinonimo di solitudine. Noi sappiamo chi siamo nella nostra privatezza, mentre per la sfera pubblica siamo costretti a riconoscerci nelle istituzioni che s’impongono con la loro forza, col peso della loro evidenza.

Non pensiamo mai a questa assurdità semplicemente perché siamo abituati a viverla sin dalla nascita. Ci illudiamo che l’esperienza dello specchio dia sicurezza, aumenti la nostra identità, la consapevolezza di noi stessi.

In realtà il bambino acquista coscienza di sé solo nel rapporto coi propri genitori e coi propri simili. L’esperienza dello specchio è del tutto inutile, anzi, può diventare fuorviante, può indurre a comportamenti narcisistici, come la strega delle fiabe che, guardandosi allo specchio, si chiede continuamente se in tutto il reame vi sia qualcuna più bella di lei. Narciso, rimirandosi, s’era innamorato di se stesso, fino a dimenticare Eco, fino a perdersi nella propria immagine.

L’illusione più grande che lo specchio offre è proprio questa, di farci credere che quello che vediamo siamo proprio noi. Lo specchio non è altro che la presunzione di definire l’identità umana, che è indefinibile per definizione. La nostra identità va sempre al di là della sua apparenza. Noi non siamo ciò che sembriamo, se non in misura minima o relativa. La nostra identità, per sentirsi umana, ha bisogno di ben altri riconoscimenti.

L’unica cosa che può concedere lo specchio è il riconoscimento dei lineamenti fisici del nostro corpo, ma di ciò potremmo anche fare a meno, in quanto la vera identità umana è qualcosa di spirituale. Il che non vuol dire che sia qualcosa di “immateriale”, di impalpabile, di impercettibile, ma vuol dire qualcosa di “profondo”, che va oltre le apparenze, le sembianze.

Noi non possiamo fare a meno della materialità della vita, ma dovremmo fare a meno di ciò che fa di questa materialità un idolo da adorare. La nostra immagine allo specchio è uno di questi idoli che quotidianamente adoriamo.

Prima di uscire di casa, noi anzitutto abbiamo bisogno di guardarci allo specchio, poiché temiamo il giudizio altrui. E in una società maschilista come la nostra, le donne sono quelle che soffrono maggiormente di questa frustrazione. Sono costrette a vedersi belle, a fare di tutto per sentirsi piacevoli agli occhi degli uomini.

Con questo non si vuol dire che gli specchi andrebbero tutti distrutti: se lo facessimo, conservando l’individualismo dei nostri rapporti, ci sentiremmo ancora più frustrati. Si vuol semplicemente dire che la relazione sociale aiuta di più all’affermazione dell’identità personale. E’ sbagliato partire dalla propria autoconsapevolezza per stabilire delle relazioni: bisogna fare il contrario.

Noi siamo nella misura in cui gli altri ci riconoscono, o meglio, nella misura in cui ci riconosciamo reciprocamente. Chi si guarda troppo allo specchio fa la fine di Alice, che, entrandovi dentro, s’immagina un mondo che non esiste.

Noi in realtà non sappiamo affatto chi siamo finché qualcuno non ce lo dice, e se pensiamo che possa o addirittura debba dircelo lo specchio, allora siamo già entrati nel mondo dei sogni.

II

Una delle cose più curiose dei racconti mistificati relativi alle cosiddette “apparizioni di Gesù risorto”, è che nessun discepolo è in grado di riconoscerlo se non è lui stesso a farlo per primo. Già da questo si può capire che chi ha scritto quei racconti – tutti del quarto vangelo – apparteneva a una medesima comunità, in cui vigeva l’idea che l’identità umana va al di là delle sue apparenze.

Gesù non viene riconosciuto da Maria Maddalena se non dopo che si è autorivelato (Gv 20,14 ss.), né viene riconosciuto dai discepoli se non dopo che ha mostrato le mani e il costato trafitti (Gv 20,20: da notare che questa comunità già ignorava che la trafittura era avvenuta nei polsi). Di nuovo non lo riconoscono quando lo rivedono sul lago di Tiberiade (Gv 21,4). Solo dell’apostolo Giovanni viene detto che lo riconobbe prima ancora che Gesù rivelasse la propria identità ultraterrena (Gv 21,7). Ma questo è stato scritto in polemica con altre tradizioni cristiane, delle quali comunque si condivideva l’assunto fondamentale della divinità del Cristo.

Insomma i discepoli possono riconoscerlo solo se è lui a rivelare espressamente la propria identità, mostrando p.es. segni caratteristici della sua persona o compiendo azioni già fatte quand’era in vita. Questo quindi vuol dire che, nella fantasia religiosa di questi redattori, egli non poteva essere riconosciuto dal volto, dallo sguardo, anche se ad un certo punto riescono a farlo, come se scattasse in loro un’improvvisa illuminazione.

I redattori di questo vangelo hanno voluto far credere che per accettare l’idea di resurrezione, cioè di un corpo che non si vede, bisogna avere la “fede”, cioè bisogna essere davvero convinti che Gesù sia “risorto”: non vi sono altre prove.

L’esperienza della fede in sostanza assomiglia a questo: mentre ci si guarda allo specchio, si vede dietro di noi un’altra persona. Cioè si vedono due persone: una reale (alienata) e l’altra immaginaria.

Tuttavia, nonostante questa forma di alienazione (tipica di ogni esperienza religiosa), resta interessante l’intuizione che considera l’identità umana molto più complessa delle sembianze ch’essa assume. L’identità è qualcosa che va oltre le apparenze. La sostanza immutevole si dà continuamente forme mutevoli per poter apparire.

Se ci pensiamo, tutta la nostra vita, giorno dopo giorno, sperimenta la mutevolezza di queste forme. Chi non accetta tale mutevolezza fisica e cerca d’impedirne meccanicamente lo svolgimento, soffre sicuramente di problemi d’identità, non riuscendo ad accettarsi.

Il senso della vita sta invece proprio nel cercare di rispecchiarsi nell’identità o nell’autenticità altrui.

5 commenti
  1. peter
    peter says:

    x Pino

    ho letto molto in fretta, rileggero’, ma condivido solo in parte. Riconoscere la propria immagine allo specchio e’ una dote di tutti gli esseri senzienti…Uno scimpanze’ con la testa macchiata di vernice si porto’ la ‘mano’ alla testa quando gli misero uno specchio davanti…

    Peter

    Rispondi
  2. peter
    peter says:

    x Uroburo

    leggo che Scalfari nacque a Civitavecchia, e forse e’ vissuto quasi sempre a Roma. Mi pare che uno dei genitori fosse calabrese. Quindi non saprei cosa lei e Sylvi intendiate per origini meridionali…lei si riferisce credo ai genitori, mentre per Sylvi anche Roma e’ Sud (ed io, paradossalmente, sarei d’accordo con Sylvi dato che a Roma mi sentivo ‘a casa’, anche se trovo i laziali piuttosto disorganizzati ed irritanti). In ogni caso, Sylvi sarebbe razzista ANCHE SE Scalfari fosse sempre vissuto a Napoli o Bari…
    E ‘ questo il punto qualificante

    Peter

    Rispondi
  3. Uroburo
    Uroburo says:

    Uroburo { 10.04.12 alle 10:33 } questo suo insistere sulla sua meridionalità è un’ennesima prova di spirito razzista.
    —————————————
    Caro Peter,
    è appunto quel che ho scritto: insistere sulle origini di qualcuno accantonando quel che ha realmente fatto è una dimostrazione di prevenzione concettuale che è molto vicina alla cultura razzista.
    Vale per chi è nato in Calabria, tanto per fare un esempio) ed è vissuto a Milano ma anche per chi è nato e vissuto in Calabria.
    Si dovrebbero giudicare le persone per quel che sono e non per le loro origini più o meno lontane.
    Io conosco dei meridionali che sono più tedeschi dei tedeschi.
    Un saluto U.

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  4. Anita
    Anita says:

    Lo specchio e’ sempre esistito anche se non nella forma che riconosciamo.

    Lo specchio piu’ vecchio e’ quello inventato dalla natura.
    I primi uomini gioivano nel vedere la propria immagine riflessa in mari, laghi e fiumi, per specchiarsi riempivano d’acqua piatti di terracotta, poi nei vari metalli…..

    (non ho letto tutto l’articolo)

    In quanto al ‘razzismo’ fra Italiani, mi sembra la parola sbagliata.

    Tra Italiani del Nord e del Sud succede anche dentro le stesse regioni, a volte anche tra citta’ vicine, ma non si puo’ chiamare razzismo.
    Forse ‘diffidenza’ dato i vari stereotipi, ma questo esiste anche dal sud verso il nord.

    In caso che non ve ne siate accorti, in questo forum siete piu’ accaniti verso i “padani”.

    La canzone dice:

    “Canten tucc ” luntan de Napoli se moeur” ma poi vegnen chi a Milan…..”

    La stessa cosa succede a chi non e’ in consonia con tutti, viene subito etichettato “fascista”…..

    Per dirlo in una sola parola, si chiama “pregiudizio”.

    Anita

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  5. Enrico Galavotti
    Enrico Galavotti says:

    Specchiarsi non vuol dire riconoscere se stessi allo specchio, ma essere riconosciuto da un altro che ci sta guardando, con cui si sta vivendo un’esperienza comune. Mi specchio in qualcuno e mi riconosco, e lui fa altrettanto con me, nel rispetto della reciproca diversità, in assenza della quale non c’è rispecchiarsi ma solo narcisismo. Se la scimmia non si riconosce allo specchio, non significa che sia poco intelligente ma solo che quella non è un’esperienza che serve alla propria identità. L’identità di una scimmia è data solo dal gruppo in cui vive e tutti gli esperimenti che possiamo fare su di lei, isolandola da questo gruppo, dimostrano solo che a volte possiamo essere meno intelligenti di lei.
    ciaooo

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