Umano e Politico, tra Camus e Sartre

La famosa querelle tra Camus e Sartre (1), di quasi sessant’anni fa, riproposta in circa 40 pagine dalla rivista “Il piede e l’orma”, alla fine del 2010, in un numero monografico quasi interamente dedicato a Camus, ridiventa incredibilmente attuale ogni volta che qualche area del pianeta vuole liberarsi dal fardello dell’imperialismo borghese. Quella volta era l’Algeria a volerlo fare nei confronti della Francia.

Ora, siccome la tentazione è quella di mettersi dalla parte di una posizione come quella di Camus, vivendo noi oggi un periodo in cui si tende a far prevalere l’umano sul politico, condizionati, in questo, dalla sconfitta del socialismo reale, che, come noto, faceva il contrario, cerchiamo di capire se davvero una posizione opposta, che quella volta s’incarnò nella figura di Sartre, sia destinata ad avere tutti i torti o se invece possa offrire ancora oggi un valido contributo per affrontare al meglio le contraddizioni del nostro tempo.

Perché qui, in fondo, si tratta di fare una scelta di campo, cioè si tratta di capire se è necessario azzerare tutti i tentativi rivoluzionari che nel passato hanno posto la politica al di sopra della morale, oppure se conservarli, previo debito filtraggio, nella convinzione che in essi vi sia un fondo di verità, utile ancora per il presente. In soldoni si tratta di capire se nei confronti delle contraddizioni del sistema borghese sia più efficace, nel lungo periodo, un atteggiamento di resistenza non-violenta, ispirato a Gandhi e fatto proprio da Camus, o se sia ancora da preferire, nonostante gli esiti catastrofici dello stalinismo, l’idea leninista di organizzare una strategia rivoluzionaria (che ad un certo punto dovrebbe diventare armata) per la conquista del potere.

Parteggiare per Camus, considerando che la posizione di Sartre è stata sconfitta dalla storia, è un’operazione troppo semplice per essere vera. D’altra parte è impossibile parteggiare per Sartre senza tener conto degli enormi progressi che, proprio intorno alla sconfitta “politica” del socialismo reale, si sono fatti in direzione dell’approfondimento dei valori umani.

Tuttavia si può qui far notare una cosa, che forse può servire per cercare una terza soluzione tra le due in campo. Tutti gli approfondimenti più significativi in direzione dell’umanesimo etico (si pensi solo ai documenti di Charta 77) non sono venuti fuori dalla cultura borghese, ma proprio da parte di chi, vivendo nel socialismo reale, lo contestava democraticamente. Un regime, quest’ultimo, che da quando è crollato sembra aver tolto alla cultura borghese il desiderio di approfondire proprio i valori della democrazia e dell’umanesimo laico, sembra aver indotto questa cultura a illudersi di possedere la quintessenza dei valori umani. Il che lascia pensare che l’uso da parte della borghesia di teorie etiche e democratiche, con cui s’appoggiava la resistenza al regime comunista, sia stata soltanto una forma strumentale all’apologia del proprio potere.

Fino a quando l’opposizione umanistica al socialismo reale non s’è imposta con l’evidenza delle sue argomentazioni, era comunque difficile contestare il valore delle accuse politiche che quel regime rivolgeva alle democrazie borghesi, secondo cui l’affermazione teorica della democrazia era del tutto contraddetta dalla dittatura del capitale. Non dimentichiamo infatti che se oggi in occidente esistono gli “Stati sociali” e, nelle nostre Costituzioni, le sezioni riguardanti i “diritti sociali ed economici”, lo si deve proprio all’ideologia socialista e non certo a quella liberale, che portò invece alle due guerre mondiali.

Ora però ci chiediamo: possiamo con sicurezza dire che dai tempi di Gandhi ad oggi l’India abbia fatto dei progressi significativi in direzione dell’acquisizione dei diritti sociali ed economici? O li abbia fatti il Sudafrica grazie a uno dei discepoli gandhiani, Nelson Mandela? Fino a che punto, in nome della sola etica, si può arrivare a trasformare una società nei suoi livelli concreti dell’economia?

La politica di Gandhi e di Mandela è sempre stata subordinata al principio della non-violenza, ma possiamo dire con certezza ch’essa abbia risolto il problema fondamentale dell’antagonismo tra capitale e lavoro? La resistenza umana contro lo stalinismo, che ha portato al crollo del socialismo reale nel 1991, ha forse fatto nascere un socialismo davvero democratico?

Queste semplici domande sono sufficienti per capire che l’etica da sola non basta, ci vuole anche la politica rivoluzionaria. Gli uomini e le donne che soffrono ingiustizie sono inevitabilmente tentati dal pensare che il loro sacrificio sia sufficiente per cambiare radicalmente le cose, ma non è così. Quando la resistenza umana è di massa, si può anche arrivare ad abbattere una dittatura (lo vediamo anche oggi in Egitto, Tunisia ecc.), ma se non si risolve la questione fondamentale della proprietà dei mezzi produttivi (vero nodo cruciale di qualunque democrazia), la situazione, presto o tardi, tornerà come prima, inevitabilmente; anzi, potrà anche peggiorare, in quanto i poteri forti sapranno prendere contromisure per non farsi abbattere come i precedenti, e useranno proprio le idee dei “riformatori morali” per sostenere che la “rivoluzione” è già stata fatta.

Chi lavora solo sul piano etico o umanistico, senza pensare a darsi delle strategie politiche rivoluzionarie, che intervengano direttamente sull’economia, s’illude che sia sufficiente il proprio esempio perché le cose s’aggiustino da sole, grazie a nuovi politici illuminati, che si pensa non avranno il coraggio di tradire chi, col proprio sacrificio e perfino col proprio martirio, li ha mandati al potere per rinnovare le cose. Ma questi politici, immancabilmente, tradiranno, perché sarà il sistema stesso, con le sue contraddizioni irrisolte di fondo, che li spingerà a farlo.

Ecco perché mettersi dalla parte della sola etica o della sola politica oggi non ha più senso. Camus avrà sempre una ragione in più contro Sartre, ma anche Sartre ne avrà una in più contro Camus. Bisogna uscire da questo circolo vizioso, chiedendosi cos’è che c’impedisce di non ripetere gli errori del passato, di non ricadere in quelle situazioni in cui si ha l’impressione, ad un certo punto, che tutti i sacrifici siano stati vani.

Per poter uscire da questo meccanismo perverso della storia, che ci induce periodicamente, a prezzo di grandi spargimenti di sangue, a ricominciare tutto da capo, occorre solo una cosa, che gli esseri umani siano davvero in grado di gestire autonomamente le risorse del territorio in cui vivono. Solo in questa maniera potranno addebitare a se stessi il fallimento della loro etica e della loro politica.

Finché non si affermerà l’autogestione delle proprie risorse territoriali all’interno di comunità in cui sia possibile la democrazia diretta, saremo continuamente indotti ad attribuire alle istituzioni statali la causa dei tradimenti dei nostri valori e dei nostri sacrifici.

Ma per affermare questa autogestione occorre non solo eliminare la proprietà privata di quei fondamentali mezzi produttivi che possono far sussistere una comunità locale; occorre anche eliminare qualunque forma di dipendenza organica dai mercati e dalle borse finanziarie: occorre affermare l’autoconsumo. Ci vogliono comunità locali che siano padrone dei loro mezzi produttivi, in grado di autogestire le risorse dei loro propri territori, capaci di democrazia diretta (e non solo delegata), in cui valori come uguaglianza sociale e libertà di coscienza non possano essere concepiti in alternativa tra loro.

Quando si vogliono realizzare cose del genere e si è disposti a difenderle, anche con le armi, diventa inutile porsi il problema se sono più importanti i valori etici o quelli politici: gli uni senza gli altri, separatamente, non resisteranno alla controffensiva del nemico.

———————–

(1) La querelle scoppiò nel 1952, quando la rivista “Les Temps modernes”, fondata da Sartre, pubblicò una recensione molto critica, firmata da F. Jeanson, sul libro di Camus, L’uomo in rivolta. Camus rispose, con non meno durezza, direttamente a Sartre, che ovviamente replicò sulla stessa rivista. I rapporti tra i due cessarono improvvisamente.
Nel suo romanzo, dell’anno prima, Camus aveva infatti sanzionato definitivamente il suo distacco dalle teorie del comunismo politico, inaugurato coi romanzi Lo straniero e Mito di Sisifo, entrambi del 1942.
Il suo ideale di vita erano diventati i paesi scandinavi, che avevano raggiunto una certa democraticità senza alcuna violenza rivoluzionaria. E, per quanto riguardava l’Algeria colonizzata (sua patria d’origine), egli aveva in mente una soluzione collaborativa con la Francia, antitetica quindi a quella del Fronte di Liberazione Nazionale, che lottava per la piena indipendenza.
L’uomo doveva essere sì in “rivolta” – secondo Camus -, ma senza centralismi di sorta, senza intruppamenti partitici, che sempre fagocitano le libertà individuali. Ed egli prendeva come esempio Gandhi, ch’era riuscito a vincere il più grande impero coloniale del mondo con la sola non-violenza.
Camus aveva aderito al Partito comunista d’Algeria nel 1934, ma già nel 1937 ne era uscito, con la convinzione che i metodi della lotta di classe non servissero a risolvere i problemi ma ad acuirli. Politicamente preferiva gli anarchici, anche se ideologicamente si mantenne sempre vicino alle posizioni del materialismo ateo.
La rottura del 1937 non ebbe però particolari ripercussioni sulla sua vita e sui suoi rapporti con la sinistra semplicemente perché, con l’inizio della guerra mondiale, egli s’era trovato comunque coinvolto attivamente nella Resistenza francese (collaborava come partigiano col gruppo “Combat”). Sarà solo dopo la fine della guerra e in riferimento soprattutto alla situazione algerina che il suo interesse per i conflitti interiori, esistenziali, assumerà chiaramente un risvolto anticomunista.
Camus in sostanza s’era persuaso, osservando anche la degenerazione dello stalinismo, che, senza umanesimo, il comunismo rivoluzionario era destinato a trasformarsi in una dittatura: la giustezza degli ideali politici non era di per sé sufficiente a garantire la democrazia. Anche Sartre arriverà alle stesse conclusioni, ma vent’anni dopo.

2 commenti
  1. Mauro
    Mauro says:

    Articolo di una purezza incredibile..dialetticamente superiore..indiffondibile per via il suo spessore..sarebbe antropologico sottoporlo a esame ad una cellula di “sinistra rivoluzionaria” o di “casa ping pound”..uh
    sembra un pò un’aurora boreale..la vedono solo in pochi e che non si sceglie gli ammiratori..avviene..
    qualsiasi posizione di critica, se chi lo leggesse conservasse una dignitosa onestà da pensatore, risulterebbe faziosa, già battuta, pessimista, nichilista e bla bla bla….forse di fondo per superare queste impasses croniche dell’etica, della metafisica e della politica.. e giuro che già ho l’orchite a ricitare ‘ste salmodie di concetti traghettate dai secoli..servirebbe un passaggio evolutivo..che magari è già in atto.. di cui non abbiamo consapevolezza..e che sicuramente morirà per mano di un insaziabile legge della natura.. e restituirà noi piccoli uomini e l’universo al sua caos primordiale..senza nessuna apocalisse..

    vivo con il mio sole invicibile all’orizzonte e mi piacerebbe parlarne e osservarlo con molti altri per sapere se anche il loro è come il mio oppure no..ma visto che l’ignavia che ho sperimentato nel mio ineludibile rettangolo di vita è opprimente continuo ad osservarmelo da solo..senza mai perdere la fiducia nel mondo…perchè posso scegliere di farlo..

    grazie di cuore

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