Sul concetto di storia

Abbiamo parlato di come schematizzare astrattamente il significato degli eventi storici formulando delle categorie generalizzanti, sufficientemente chiare nella loro paradigmaticità e sufficientemente valide per la storia complessiva del genere umano, e, a titolo esemplificativo, abbiamo proposto una comparazione teorica tra due forme di civiltà: quella feudale e quella borghese.

Ora, se davvero vogliamo universalizzare il concetto di storia, cioè se vogliamo che nelle scuole e nella società s’impari a capire qual è la storia del genere umano, è necessario anzitutto eliminare i riferimenti privilegiati alle persone, in quanto i cosiddetti “protagonisti” della storia altro non sono che esponenti di un movimento di idee, culture o tradizioni.

La singola persona è parte di un tutto. Anche un leader politico non può essere considerato più importante della corrente di pensiero cui egli appartiene, anzi la sua importanza è direttamente proporzionale al grado di coinvolgimento personale in una causa per il bene comune.

È vero che a volte certe persone concentrano su di loro lo svolgimento di interi periodi storici, come se in un piccolo microcosmo umano fosse racchiusa l’essenza dello sviluppo di un macrocosmo storico. La storia però non ha conosciuto tante persone di questo genere, anche se quelle che ha conosciuto hanno lasciato indubbiamente un segno indelebile, tanto che può capitare, passato un certo periodo di tempo, in cui quelle persone erano state come dimenticate, un ritorno improvviso alle loro idee, dando ad esse nuove interpretazioni, che riprendono quelle precedenti aggiungendo particolari inediti e innescando così nuovi sviluppi. Si pensi solo alla riscoperta medievale dell’aristotelismo o del “Cristo povero” da parte dei movimenti pauperistici ereticali.

Questo probabilmente avviene perché l’essenza dell’uomo, in ultima istanza, è univoca: cambiano solo le forme, le circostanze, l’ambiente in cui essa deve muoversi. Dal confronto con modalità diverse nasce l’esigenza di riformulare le idee di un tempo.

Ma questo non ci esime dal compito di contestualizzare l’azione di queste singolari persone, né ci può indurre a credere ch’esse fossero per i loro contemporanei come piovute dal cielo. Ognuno di noi è rigorosamente figlio del proprio tempo ed è proprio per questa ragione che la storia va appresa per concetti generali, per categorie astratte di pensiero (politico, economico, sociale, culturale…), comprensibili da parte di chiunque, ovunque si trovi. Quanto più s’impone il senso di appartenenza globale al pianeta, cioè a una storia comune, tanto più occorre riscrivere il percorso di questa storia.

“Al centro di una storia che voglia essere ‘globale’ non sta più lo sviluppo delle singole civiltà, ma si pongono invece i loro rapporti, i loro incontri e scontri, i loro scambi, le trasformazioni che il contatto con altre civiltà induce in ognuna di esse”(1). È una prospettiva “relazionistica” non “sommativa”.

Sarebbe anzi molto interessante vedere come p.es. gli ideali di un qualunque leader rivoluzionario siano stati in realtà già formulati da parte di correnti di pensiero, movimenti di opinione di altre epoche e latitudini del tutto sconosciute a quel leader. Bisogna abituarsi all’idea di considerare l’essere umano come un soggetto universale, con bisogni e caratteristiche universali. Se un individuo si sente parte di un cosmo, di una realtà infinitamente più grande di lui, è più disposto a rinunciare al proprio personalismo.

La storia dunque va studiata in maniera trasversale. P.es., un concetto come la democrazia sociale, obiettivo di ogni vera politica, come si è sviluppato in questo o quel paese di qualsivoglia periodo storico? Nel Medioevo non si parlava di “democrazia”, ma saremmo degli sciocchi a sostenere che non ve n’era solo perché non se ne parlava (eppure tutti i manuali scolastici parlano di “secoli bui”, di grande arretratezza rispetto al mondo greco-romano ecc.). Nella Grecia classica si parlava di democrazia tutti i giorni, eppure nessuno ha mai messo in discussione l’istituto della schiavitù, neppure grandissimi filosofi come Platone e Aristotele.

Tempo e spazio diventano relativi, poiché vanno ricondotti al fatto che l’essere umano è unico in tutto il pianeta e che le differenze che ci caratterizzano sono soltanto di forma. Bisognerebbe stabilire sul piano concettuale una sorta di percorso evolutivo dell’umanità, che è passato per determinate fasi, comuni a molte civiltà: comunismo primitivo, schiavismo, servaggio, lavoro salariato, socialismo amministrato…, e cercare di vedere in che modo queste fasi sono state vissute da questo o quel paese, di questo o quel periodo.

Lo stesso concetto di “nazione”, che oggi consideriamo come “naturale”, diventerebbe molto circostanziato: meglio sarebbe parlare di “civiltà”, la cui cultura dominante è sufficientemente omogenea ma i cui confini geografici sono inevitabilmente meno definiti.

La storia non può essere studiata in maniera cronologica-lineare-sequenziale, partendo da un’arbitraria prevalenza concessa a questa o quella zona geografica o a questa o quella civiltà. È la storia del genere umano, della specie umana, che va studiata, secondo delle linee evolutive in qualche modo verificabili e dimostrabili, appunto perché costanti, ricorrenti.

Non lo sanno gli storici che la comparazione internazionale sprovincializza, rendendo meno angusti gli ambiti locali e nazionali, al punto che ci sente “cittadini del mondo”? O forse ritengono, ingenuamente, che i processi della globalizzazione non andranno mai a influenzare in maniera decisiva l’impostazione di fondo delle ricerche storiche condotte in occidente?

Nei prossimi decenni l’unica ricerca storica possibile sarà quella “comparativistica”, cioè quella che metterà a confronto, in maniera olistica, integrata, globale, soltanto i grandi eventi della storia, le grandi trasformazioni epocali, di breve e di lungo periodo, che hanno caratterizzato, in momenti diversi e con diversa gradazione e intensità, popolazioni geograficamente molto distanti tra loro. Tutta la periodizzazione storica cui noi occidentali siamo abituati, andrà abbondantemente riveduta e corretta.

Quanto più ci mondializziamo, tanto più dobbiamo rinunciare all’idea che esista un “centro” da usare come punto di riferimento per osservare la “periferia”. L’esigenza di una “storia mondiale” ci sta entrando in classe ogni giorno che passa e la vediamo nei volti dei nostri ragazzi immigrati.

La storia globale va vista come un gigantesco intreccio di fattori culturali, sociali, economici, politici, in cui la stessa nozione di civiltà, che fino ad oggi è stata usata non per unire ma per dividere, dovrà essere sostituita con quella di “macroaree geografiche tangibili”, come dice Olivella Sori, nella sua relazione al convegno “Global History” del 2004. La storia globale non è un’impossibile “storia del mondo”, che nessuno studente sarebbe mai in grado di apprendere, ma un nuovo approccio ermeneutico, una “reinterpretazione di storie particolari in prospettiva diversa”, sicuramente più sintetica, più per concetti generali che non per fatti particolari, in cui l’individuazione di una specifica identità non sarà il criterio con cui impostare preliminarmente la ricerca, ma una sorta di prodotto finale, conseguente appunto alla necessità di mettere a confronto eventi e processi di ogni tipo. Dovrà insomma essere il “tu” ad aiutare l’“io” a capire se stesso.

Non è un processo semplice, non è una metodica che si può acquisire in poco tempo. Facciamo un esempio delle difficoltà in atto. La fine del conflitto est-ovest, a partire dalla svolta gorbacioviana del 1985, seguita dal crollo del muro di Berlino quattro anni dopo, avrebbe dovuto indurre gli storici a rivedere i giudizi frettolosi, riduttivi, da sempre espressi nei confronti della cultura religiosa di tipo ortodosso dei paesi slavi ed ellenici, la cui importanza dovrebbe in teoria risultare centrale nei manuali scolastici di storia medievale e che invece viene sempre circoscritta in poche paginette.

Tutto purtroppo è rimasto come prima. I bizantini restano “cesaropapisti” e il loro Stato “fiscalmente esoso”, gli ortodossi restano “scismatici” e i loro teologi “cavillosi”. Ancora oggi appare del tutto normale intitolare il capitolo dedicato a Carlo Magno: “Il sacro romano impero”, senza fare cenno alcuno al fatto che un impero del genere esisteva già, ed era a Bisanzio, anzi a Costantinopoli, gestito dal legittimo basileus, secondo una discendenza che partiva da Costantino, sicché quello carolingio fu in realtà un abuso giuspolitico a tutti gli effetti, tanto che dovette essere legittimato da quel falso patentato, elaborato in qualche monastero benedettino, che passò alla storia col nome di Donazione di Costantino.

Una realtà millenaria come quella bizantina, che ha diffuso il cristianesimo presso tutte le popolazioni slave, e che mantenne in vita gli scambi commerciali e culturali tra paesi slavi, indo-cinesi e islamici, viene sempre liquidata in un unico capitolo dedicato a Giustiniano (482-565), come se dopo il tentativo, abortito, della renovatio imperii, un intero impero, al pari di Atlantide, fosse scomparso nel nulla, salvo ripescarlo, con poche righe, in occasione dell’iconoclastia, dello scisma del 1054 e della IV crociata.

(1) Pietro Rossi, Verso una storia globale, in “Rivista storica italiana”, CXIII, n. 3/2001

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