Lo studio delle civiltà (V)

Evoluzione e involuzione

Noi non possiamo attribuire il livello di progresso di una popolazione al grado di sviluppo tecnologico, di divisione del lavoro o ad altri fattori meramente materiali o economici, senza prendere in considerazione l’insieme delle condizioni sociali, culturali e politiche dell’intera popolazione. Non sono un indice sicuro di progresso i fattori cosiddetti “dominanti”, come p.es. il livello delle forze produttive, che si misura sulla capacità di riprodursi economicamente. È l’insieme della vita sociale che va preso in considerazione e non un suo singolo aspetto.

Non dobbiamo dimenticare che i guasti principali arrecati al nostro pianeta provengono esclusivamente dalle cosiddette “civiltà”, cioè da organizzazioni “avanzate” dell’economia, delle istituzioni, dell’apparato bellico… Bisogna quindi ripensare totalmente il significato della linea evolutiva che va dalle società tribali alle civiltà. Questo perché, a ben guardare, non c’è stata una vera e propria “evoluzione”, ma piuttosto un’involuzione da uno stadio di vita collettivistico a una serie di formazioni sociali individualistiche.

Se fossimo un minimo onesti con noi stessi, troveremmo alquanto difficile sostenere che gli uomini di oggi hanno una coscienza della loro umanità di molto superiore a quella che potevano avere gli uomini di mille, diecimila o un milione di anni fa. Non sono le circostanze esteriori, materiali o fenomeniche, che rendono più o meno grande tale consapevolezza, altrimenti si sarebbe costretti ad affermare che popolazioni prive di scienza e di tecnica evolute dovrebbero essere considerate dal punto di vista della consapevolezza umana, assolutamente primitive. Ma se anche solo guardassimo al modo in cui hanno vissuto il loro rapporto con la natura, dovremmo dire esattamente il contrario.

Come d’altra parte è assurdo sostenere che, solo per il fatto di non aver lasciato nulla di scritto, determinate popolazioni possono essere considerate umanamente sottosviluppate. Noi oggi siamo talmente condizionati dalla scienza e dalla tecnica che non siamo più capaci di stabilire dei parametri qualitativi con cui indicizzare e monitorare l’umanità dell’uomo, a prescindere dai mezzi tecnico-scientifici che impiega.

Per noi l’essere umano è anzitutto l’homo technologicus, oltre il quale esiste solo l’homo animalis, assolutamente primitivo, ferino, come – a partire dal mondo greco-romano – si presumeva fossero le popolazioni cosiddette “barbariche”, disprezzate anche nel modo di parlare. Facciamo molta fatica ad accettare l’idea, per molti versi incredibilmente banale, di un sano relativismo storico.

In realtà sarebbe sufficiente rinunciare a tutto ciò che contraddice le esigenze riproduttive della natura, per capire che la nostra attuale civiltà è lontanissima dal potersi definire “umana”. Infatti è soltanto la natura che può farci capire l’essenzialità della vita. E se c’è una cosa che non possiamo permetterci, anche se all’apparenza sembra non essere così, è proprio quella di essere contro-natura, cioè di usare scienza e tecnica etsi daretur non esse naturam.

Qui non è più questione di destra o sinistra, di capitalismo o socialismo; la stessa tutela ambientale rischia di diventare un mero surrogato, se non si pone il problema di come uscire da un concetto di “civiltà” in base del quale noi oggi intendiamo cose del tutto innaturali e quindi inumane.

Quando gli storici prendono in esame i seguenti venti punti, non hanno dubbi da quale parte stare, o comunque un docente sa già a quale risposta porteranno gli interrogativi che dovrà porre allo studente, nel mentre insieme useranno il libro di testo. Ma dare per scontata una risposta a questi temi significa fare un torto alla ricerca storica.

1. La scrittura di pochi singoli ha sostituito la trasmissione orale di un popolo (interessi particolari hanno prevalso su interessi generali);
2. la vita urbana ha subordinato a sé quella rurale;
3. il valore di scambio ha prevalso su quello d’uso;
4. il mercato ha rimpiazzato l’autoconsumo;
5. la specializzazione del lavoro ha sostituito la capacità di saper fare ogni cosa utile a sopravvivere;
6. il lavoro intellettuale è decisamente prevalso su quello manuale;
7. con la scienza e la tecnica si vuole “dominare” la natura o la parte più debole, meno acculturata dell’umanità;
8. all’uguaglianza dei sessi è seguita la dominanza del maschio;
9. la proprietà privata domina su quella sociale;
10. la stanzialità ha sostituito il nomadismo;
11. l’esigenza del superfluo ha prevalso sui bisogni fondamentali;
12. l’idea di progresso prevalente è stata usata soltanto in relazione alla materialità della vita, al benessere economico ed è stata portata avanti da pochi contro molti;
13. s’è fatto coincidere, in maniera automatica, il livello di produttività di un paese col benessere sociale della popolazione; indici quantitativi hanno prevalso su quelli qualitativi; l’economico ha prevalso non solo sull’ecologico ma anche sul sociale;
14. l’io prevale sul collettivo;
15. la democrazia delegata ha sostituito quella diretta;
16. le amministrazioni statali hanno paralizzato l’autogestione o l’autogoverno delle popolazioni, e in generale lo Stato domina la società civile; si è voluto far credere che una maggiore statalizzazione significasse automaticamente una maggiore socializzazione;
17. le nazioni hanno sostituito le comunità di villaggio; abbiamo posto dei confini per stare separati;
18. ci si arroga il diritto di imporre alle nazioni più deboli i propri criteri di vita: non c’è confronto alla pari, rispetto della diversità, ma imposizione di un modello;
19. tutti i valori affermati (siano essi laici o religiosi) servono solo per assicurare questo stato di cose, cioè anche se i valori sembrano umani e conformi a natura, nella pratica producono il contrario;
20. le armi che servivano per cacciare ora possono distruggere l’intero pianeta.

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