Una parentesi sulla Geografia

Gli stessi rapporti controversi tra storia ed educazione civica s’incontrano anche tra storia e geografia, tipici della scuola italiana.

Di fatto noi non riusciamo a fare della geografia la “premessa ambientale” di quei fenomeni storici che ogni anno insegniamo, in quanto i libri di testo ci impongono di considerarla separatamente e quindi di affrontare argomenti che non c’entrano nulla con quelli del corso di storia.

Senonché senza coordinate geografiche (confini e caratteristiche di un territorio, delle sue risorse naturali, del suo clima, senza i dati statistici che aiutano a leggere un territorio) qualunque discorso storico inevitabilmente s’impoverisce, soprattutto in riferimento alle fasi delle civiltà antagonistiche, in cui la storia è, in sostanza, una continua ricerca di risorse da sfruttare.

Oggi la stessa geografia, volendo aiutare il cittadino a leggere le interconnessioni tra uomo e ambiente, deve sempre di più legarsi alle scienze sociali ed economiche. Si pensi solo a un argomento di grande discussione come l’ecologia: qui davvero occorrono forti sintesi tra geografia, storia, attualità, economia, statistica…

Ebbene per quale motivo questo approccio integrato risulta estraneo ai libri di testo di storia, che in sostanza si limitano a offrire soltanto delle schematiche mappe? A proposito di mappe, è singolare che quelle di Arno Peters, che a partire dal 1973 hanno rivoluzionato la concezione della cartografia, siano spesso assenti sia nei manuali di storia che, ed è ancora più grave, in quelli di geografia.

Ma il discorso sulla geografia insegnata a scuola sarebbe davvero lungo, poiché anche in questa disciplina, esattamente come in storia, l’Europa occidentale ha priorità su qualunque altra area geografica (oggi anche sulla stessa Italia, che viene affrontata solo alle Elementari) e ovviamente il capitalismo è considerato il miglior sistema economico di tutti i tempi.

Il ripristino dell’Educazione civica

Nelle nostre scuole si è tenuta per molto tempo separata la storia dall’educazione civica, finché la Direttiva ministeriale n. 58 ha deciso nel 1996 di spalmare quest’ultima, nelle medie, nell’arco del triennio di storia e parzialmente di geografia, ma soprattutto di delegarla ai progetti educativi di istituto (come p.es. quello alla legalità) o comunque di farla diventare una sorta di “educazione trasversale” a tutte le discipline, al pari di tante altre, che non hanno propri orari, voti e abilitazione e che, pur essendo fatte poco e male, sarebbero forse quelle più utili per i nostri allievi e sicuramente quelle su cui più facilmente si potrebbero testare le competenze.

Le elenca Luciano Corradini nel Documento di sintesi prodotto dal gruppo di lavoro sull’educazione alla cittadinanza istituito con decreto dipartimentale 12.4.2007, n.32: educazione alle relazioni interpersonali, alla socialità e alla convivenza civile; educazione alla cittadinanza (democratica, attiva, responsabile, italiana, europea, mondiale, plurale, a raggio variabile, ecc.) e alla cultura costituzionale, ai diritti umani, alle responsabilità, al volontariato, alla legalità e simili (comprese sottovoci rilevanti come l’educazione stradale); educazione interculturale e alle differenze di genere e alle pari opportunità; educazione alla pace e alla gestione (democratica, non violenta, creativa) dei conflitti e simili; educazione all’ambiente, naturale e culturale, e allo sviluppo (umano, globale, planetario/locale/’glocale’, sostenibile ecc.); educazione ai media e alle nuove tecnologie, e simili; educazione alla salute.

L’educazione civica poteva essere affrontata indipendentemente da un’analisi storica dei problemi, in quanto chiamava in causa questioni giuridiche, sociali, culturali, etiche ecc. E tuttavia la vera efficacia di questo “sapere” stava proprio, quando si trattava di tirare le fila del discorso, nel fare riferimenti precisi alla storia, al fine di comprendere adeguatamente l’origine socioculturale e lo sviluppo dei fenomeni e dei problemi, evitando le astrattezze e le genericità delle analisi non contestualizzate.
Ancora oggi, pur non avendo più un libro di testo specifico, un docente di storia può tranquillamente usare un argomento di educazione civica come occasione motivazionale da cui partire (p.es. il ruolo della famiglia contemporanea), per poi elaborare un percorso sulle diverse tipologie di famiglie lungo i secoli, spiegandone l’evoluzione in rapporto ai processi sociali ed economici.

L’educazione civica non può sopperire all’uso di strumenti legati all’attualità, come p.es. i quotidiani, spesso presenti nelle aule, che coi loro dossier relativi ai grandi temi di attualità, sono in grado di offrire un certo contributo all’affronto di tale “educazione trasversale”. Per l’analisi del presente l’educazione civica può essere anche più importante della storia, la quale, inevitabilmente, si configura come una riflessione sul passato, o comunque su fatti accaduti non di recente, anche quando ci si riferisce all’oggi.

La scuola dovrebbe togliere ai mass-media (tv, radio, quotidiani, web) il privilegio di disporre in maniera esclusiva dell’accesso alla “contemporaneità”, anche perché quando si affronta la contemporaneità senza una base storica (come appunto fanno i media), si cade inevitabilmente nella superficialità delle tesi da sostenere, si finisce nel vicolo cieco delle opinioni fini a se stesse, senza capire la causa remota dei problemi e dei fenomeni.

La ricerca storiografica, in tal senso, ha già parlato di una “nuova alleanza tra storiografia e insegnamento”, nella consapevolezza di un forte legame tra storia contemporanea e formazione dei cittadini. (1)

Didatticamente si può dunque partire in classe da un argomento di educazione civica (o di attualità), per poi arrivare a una precisazione, sufficientemente chiara, dei termini storici entro cui un determinato problema può essere affrontato. La lezione riesce quando i vari punti di vista si confrontano democraticamente, quando emergono opinioni condivise da questo o quel gruppo e soprattutto quando sono i ragazzi stessi che ad un certo punto si mettono a formulare nuove domande.

Se oggi p.es. la famiglia nucleare vive una profonda crisi, si deve comunque sapere ch’essa è uscita dalla famiglia patriarcale e questa è stata distrutta nella transizione dal feudalesimo al capitalismo. Un ritorno alla famiglia patriarcale, in un contesto borghese, non ha senso, tanto più che oggi la famiglia che va imponendosi, per motivi anche di disagio economico, punta spesso sulla convivenza senza figli.

Questo per dire che è stato un errore l’aver abolito il testo di educazione civica. Anzi vien quasi da pensare che nessun’altra disciplina meglio dell’educazione civica (che poi era un’educazione alla legalità e alla democrazia) avrebbe potuto garantire le “situazioni di caso” sulla base delle quali verificare le competenze personalizzate.

In questo momento, come noto, il Ministero della P.I., impressionato dai fenomeni di bullismo dello scorso anno scolastico, ha voluto ripristinare questa disciplina nella scuola media, senza sapere che, pur non facendola in maniera tradizionale, le scuole s’erano attrezzate da tempo a svolgerla in altre forme e modi. L’ha pretesa come materia a sé senza dotare gli studenti dei relativi libri di testo, confidando nella buona volontà dei docenti.

(1) Cfr Convegno internazionale, Storiografia e insegnamento della storia: è possibile una nuova alleanza? (Bologna 2004) e Convegno nazionale di Modena, La storia è di tutti. Nuovi orizzonti e buone pratiche nell’insegnamento della storia (2005)

Lucio Battisti ci ritorna in mente, ancora, sempre

Son passati ormai più di dieci anni dalla morte di Lucio Battisti, indimenticato da fan, colleghi, critici e da milioni di italiani di tutte le età che conoscono a menadito le sue canzoni anche se non le ascoltano da anni. Cos’altro potrebbe mai esserci di nuovo da dire o scrivere su di lui e la sua collaborazione magicamente irripetibile con Mogol? Per il giornalista Renzo Stefanel (un passato da chitarrista pop) un mito del genere non finisce mai di dare nuovi spunti, altre suggestioni. E così ha dato alle stampe “Ma c’è qualcosa che non scordo” (Arcana): «È vero, libri e siti web non mancano, ma mi premeva ribadire con forza due assunti – racconta – Innanzitutto che i due non sono un “santino” come ci propongono i media da anni con una ventina di canzoni, sempre le stesse, ma due autori che hanno saputo indagare sul rapporto uomo/donna come nessuno altro in Italia. Fino alla critica dei capisaldi della civiltà occidentale dei dischi che io chiamo “perduti” scritti insieme tra il ’71 e il ’74: “Amore e non amore”, “Il nostro caro angelo” e “Anima latina”. Nel libro poi sottolineo come Battisti & Mogol abbiano avuto grande successo senza mai diventare di moda. Erano sempre un passo avanti rispetto agli altri, loro anticipavano le mode, e a tutti non restava che copiarli. Per rimanere ancora una volta spiazzati con l’uscita di un nuovo disco. E se Lucio tornasse in vita oggi non troverebbe lavoro nelle major, non sarebbe un cantante per la massa, inciderebbe per qualche etichetta indipendente». Il libro fa notare più volte la forza innovativa e rivoluzionaria di Battisti, eppure c’era chi lo diceva fascista… «Come ha già scritto Gianfranco Salvatore nella biografia, la leggenda di Battisti “nero” va sfatata. Forse era dovuta al fatto che non era politicamente schierato a sinistra come altri suoi colleghi e amici. Oppure al suo carattere chiuso e scontroso. Sta di fatto che persino le Brigate Rosse lo amavano. La sua intera discografia venne trovata in un covo, e una citazione da “Io vorrei non vorrei ma se vuoi” – “le discese ardite e le risalite” – spunta da un comunicato dei rapitori di Aldo Moro». Né di destra né di sinistra dunque, piuttosto un cane sciolto con una certa simpatia per una visione “hippy” della vita? «Mogol scriveva i testi solo dopo aver parlato a lungo dell’argomento con Battisti. Tant’è che Lucio diceva “non c’è parola di Mogol che io non condivida”. Le loro canzoni prendono di mira consumismo, maschilismo, bigottismo. Si rifanno a filosofi e intellettuali come Nietzsche, Heidegger e Svevo. E la voce era fuori da tutti canoni del bel canto italiano». Mentre Battisti continuò a comporre grandi canzoni anche senza Mogol, non si può dire viceversa: «Si è detto di tutto e di più sulla rottura del sodalizio, ma io credo che fu colpa dell’esaurimento della vena creativa di Mogol, ormai inadeguata. Lui stesso lo confessa in “Io tu noi tutti” quando scrive “il mio vecchio editore l’ho sempre fatto arrabbiare”. Ci riprovò con Cocciante, cambiando tematiche (ad esempio affrontando l’amicizia maschile) fino a dire che Gigi d’Alessio era il nuovo Battisti…». Nel libro possiamo leggere qualche notizia inedita? «Sì, una piccola grande curiosità. Dopo “Balla Linda” e “Il paradiso” ho scovato una terza canzone di Battisti tradotta in inglese, “Mi ritorni i mente” rifatta dai Love Affair (nel ’68 erano in classifica subito dopo i Beatles). La cover uscì nel ’71 ma fu un flop».

Battisti forever, dunque. Tant’è che Renzo Stefanel sta lavorando ad un nuovo libro su di lui: “Sarà tutto su “Anima latina” e tale sarà il suo titolo. Esce per la collana “Tracks” della Noreply di Milano, in cui ogni volume è dedicato allo svisceramento di un disco fondamentale della musica italiana e straniera e al suo inserimento nel contesto socio-politico-culturale dell’epoca in cui è uscito. Il libro sarà in vendita da febbraio 2009. Conterrà interviste a tutti coloro che hanno partecipato al disco in qualche modo o hanno ruotato intorno a Battisti in quel periodo”.

Appello del Forum Insegnanti per salvare la scuola pubblica dalla svendita alle scuole private

Lo stato d’animo dei lavoratori della Scuola oscilla dallo sconforto alla rabbia nel rilevare la persistente inadeguatezza del sindacato e delle opposizioni nel contrastare il processo di privatizzazione dei beni comuni in generale e dell’istruzione in particolare, come se non esistesse da parte di tali soggetti la consapevolezza che ci si stia avviando precipitosamente ad un punto di non ritorno, ragion per cui occorre ora e subito senza alcun indugio  una massiccia mobilitazione per contrastare un attacco senza precedenti ai principi della Costituzione, ai diritti dei lavoratori e al loro salario e all’etica stessa della convivenza civile. Continua a leggere

Quali competenze storiche?

Nonostante da più di vent’anni, cioè almeno dai programmi del 1985 per la scuola elementare, la storia come disciplina sia oggetto d’interesse da parte dei tanti Ministri della Pubblica Istruzione che fino ad oggi si sono succeduti e che han cercato di superare la ripetizione ciclica dei contenuti, a favore di una visione organica del curricolo tra scuole elementari e medie, il modello gentiliano domina ancora incontrastato.

La didattica di tale disciplina, probabilmente la più complessa di tutte, viene ancora concepita come trasmissione di conoscenze consolidate, frutto delle ricerche degli storici accademici, le quali vengono poi imposte dagli editori, previa semplificazione didattica, attraverso l’adozione del libro di testo, la cui tassativa obbligatorietà nessun Ministro ha mai messo in discussione.

Tale trasmissione avviene per lo più attraverso la lezione frontale e lo studio del manuale, che consiste nella memorizzazione, da parte dello studente, di fatti o eventi disposti in un ordine lineare-diacronico, sulla base del presupposto dell’unicità del tempo storico, coincidente col tempo cronologico degli eventi, che s’intendono riferiti teleologicamente all’Europa occidentale, un’area geo-storica a fronte della quale il resto del mondo o non esiste in maniera autonoma, oppure è visto come mero prolungamento dell’impatto euroccidentale sul pianeta: “nella gran parte dei manuali l’auspicato abbandono dell’eurocentrismo si riduce ancora ad una pura dichiarazione d’intenti”, così scrive R. Dondarini, in Per entrare nella storia, ed. Clueb, Bologna 1999.

Tutta la storia è concepita come un continuo narrativo di fatti eminentemente politico-istituzionali, che trovano il loro terminus ad quem nel presente della civiltà occidentale, il cui inizio storico stricto sensu viene fatto risalire al XVI secolo, fatte salve le anticipazioni di Italia e Fiandre, mentre l’inizio storico sensu lato parte addirittura dalle prime civiltà assiro-babilonesi e soprattutto da quelle mediterranee (egizia, fenicia, minoico-cretese ecc.), che sono a noi più vicine: in definitiva da tutte quelle civiltà caratterizzate dalla scrittura, dagli scambi commerciali, dall’urbanizzazione, dalla divisione del lavoro, dalla contrapposizione dei ceti ecc. e che hanno trovato il loro compimento più significativo nella nostra. Da quel lontano passato ad oggi l’unico momento poco meritevole d’essere preso in considerazione è il cosiddetto “Medioevo”, a causa della sua eccessiva caratterizzazione “rurale”, soprattutto di quel periodo che va dalle invasioni cosiddette “barbariche” al Mille. Insomma il nostro presente va a cercare nel passato una propria anticipata autorappresentazione. Antonio Brusa ha scritto, a tale proposito, un importante Prontuario degli stereotipi sul Medioevo (“Cartable de Clio”, n. 5/2004, reperibile anche in storiairreer.it): se ne citano almeno una quarantina.

Ancora oggi noi usiamo parole come “Medioevo”, “impero bizantino”, “barbari” ecc. che i protagonisti di quelle epoche avrebbero ritenuto del tutto incomprensibili se non addirittura inaccettabili. P.es. il termine “Medioevo”, che pur ci appare così cronologicamente neutro, e che è stato formulato in epoca umanistica, è alquanto dispregiativo: considerare mille anni di storia (che poi in Europa orientale furono molti di più e spesso con caratteristiche meno “feudali” delle nostre) come una sorta di “intermezzo barbarico” tra due “luminose civiltà”: quella greco-romana e quella umanistico-rinascimentale, sicuramente non è stato e continua a non essere il modo migliore per valorizzare quel periodo.

Chiarito infine che l’attributo più significativo con cui cerchiamo di distinguere la nostra civiltà da tutte le altre non meno commerciali, è la rivoluzione tecnico-scientifica, che ha permesso l’industrializzazione del business e il totale assoggettamento della natura, non resta che chiudere il primo ciclo dell’istruzione con la disamina del Novecento, dopodiché alle superiori – ecco perché parliamo di impostazione gentiliana – non resta che ricominciare tutto da capo.

Peraltro il “presente” di cui si poteva parlare in terza media fino allo scorso anno scolastico non era neppure tanto “contemporaneo”, in quanto, con la riforma morattiana, si era tornati a fare, in 60 ore disponibili, l’Ottocento e il Novecento. Questo poi senza considerare che del mondo contemporaneo, generalmente, non si fanno mai quelle cose che potrebbero davvero servire alla gioventù per affrontare al meglio il proprio tempo, e che invece spesso si ritrovavano in un qualunque manuale di educazione civica.

È vero che con le nuove Indicazioni per il curricolo (2007) s’è tornati a riproporre lo studio del solo Novecento nell’ultimo anno della scuola media, ma è anche vero che questa scelta stride ancor più con l’altra, non meno recente, d’aver voluto innalzare l’obbligo scolastico a 16 anni. Infatti se davvero fossimo favorevoli a una visione organica, in verticale, del curricolo di storia, dovremmo far fare il Novecento soltanto nell’ultimo anno del biennio delle superiori, che viene appunto a coincidere con la fine dell’obbligo; anzi, in questo stesso anno si dovrebbe prevedere un esame finale di stato, eventualmente in sostituzione di quello del primo ciclo d’istruzione.

In fondo non era così peregrina l’idea berlingueriana della Riforma dei cicli (n. 30/2000) secondo cui il periodo compreso dalla rivoluzione industriale ai giorni nostri sarebbe stato meglio farlo nelle prime due classi della scuola secondaria superiore, a conclusione appunto di un percorso iniziato in prima elementare. L’affronto più approfondito dei problemi ne avrebbe sicuramente tratto giovamento.

Ratzinger-Sabina Guzzanti: chi offende chi? Forse che anche lei non è, come tutti gli esseri umani, “persona sacra e inviolabile”?

E dunque Sabina Guzzanti è finita nei guai giudiziari per avere offeso il papa. Strano che in questo caso i berluscoidi non starnazzino di toghe asservite: si vede che le toghe sono asservite solo quando bastonano gli amici e gli amici degli amici, mentre invece sono splendide quando bastonano, a sproposito, i nemici che di fronte a certi amici elefanti o rinoceronti sono meno di una pulce. Ogni tanto la procura della Repubblica di Roma dà prova del suo zelo.

Io però sostengo che è il papa che ha offeso Sabina Guzzanti e anzi non solo lei. Prima di spiegare il perché, osserviamo una cosa talmente ridicola che quando l’ho letta mi sono stropicciato gli occhi: sogno o son desto? Ahimé, ero e sono desto. Dunque: l’articolo 8 dei Patti Lateranensi, questo obbrobbrio servile ereditato dal fascismo e sdoganato dal Craxi sdoganatore dei neo fascisti, afferma che “il Papa è persona sacra e inviolabile”! Persona sacra? Perché, le altre persone che so’, monnezza? Non sono sacre? Non siamo tutti sacri? Che espressione ridicola, ruffiana, blasfema, quella dell’articolo 8 sul papa (io lo scrivo con la minuscola) “persona sacra”. Poi dicono che il medioevo e il fascismo sono passati. Continua a leggere

Il berlusconismo interpreta ed esprime il nuovo, per brutto che sia. La sinistra è rimasta in mezzo al guado, legata al c’era una volta

Credo di avere capito cosa è successo in Italia negli  ultimi tempi, politicamente parlando, e perché la sinistra è conciata come è conciata. In soldoni, mentre le nuove realtà economicamente importanti hanno trovato una loro rappresentanza politica, cioè nuovi partiti e anzi sono riuscite e esprimerli in prima persona fino a conquistare buona parte dei nuovi strati sociali, la maggioranza del parlamento e il governo del Paese, la sinistra è rimasta ferma alla difesa dell’esistente. Crollata l’Urss, il Partito comunista s’è trovato senza il suo referente principale. il suo azionista di riferimento. E man mano che è cambiata la realtà produttiva, dalle grandi industrie e dalle grandi fabbriche al “piccolo è bello” e all’uso selvaggio della manodopera extracomunitaria, il partito comunista si è mana mano trovato la sua base sociale di consenso sempre più erosa e frantumata. Il Pci è diventato “la Cosa”, “la Quercia”, ecc., fino ai DS e al PD, ma avendo come riferimento più che altro se stesso, cioè le sue strutture di partito, che le nuove realtà sociali. Idem i vari partitini che nel nome sono rimasti comunisti, oggi ben quattro.Fausto Bertinotti è diventato presidente della Camera, ma non ha mai saputo spiegare come intendeva rifondare il comunismo il suo partito che pure si chiamava Rifondazione comunista. Rifondare cosa, come? Mistero. Continua a leggere