LE VERITA’ NEGATE SULLA FINE DI ENRICO MATTEI – 5

La resa dei conti

Tutto ebbe inizio a Bascapè il 27 ottobre del 1962 e fu l’inizio di un lungo silenzio. Vi furono solenni funerali di Stato a Roma, con il presidente della Repubblica Segni, Andreotti e Fanfani in testa, e vi fu una precisa “consegna”: sulla vicenda di Mattei doveva scendere il silenzio; con lui doveva morire anche la verità sulla sua fine. Era come se all’interno del governo, nei circoli politici e soprattutto in quelli economici, dietro all’apparenza del dolore aleggiasse un’atmosfera di sollievo per la perdita di un uomo che era stato fonte di non pochi problemi. Al silenzio e alla morte della verità contribuirono depistaggi di ogni genere: la scandalosa “falsa verità” preconfezionata della commissione ministeriale d’inchiesta istituita da Andreotti appena tre ore dopo la caduta dell’aereo dell’Eni; l’archiviazione, nel 1966, della inchiesta giudiziaria da parte dei magistrati di Pavia, che a quella “falsa verità” si accomodarono; la divulgata tesi apparentemente scontata delle “Sette Sorelle” petrolifere o del complotto internazionale avente il sapore della “fantapolitica”. Anche la stampa tacque e lo stesso Giorgio Bocca che allora lavorava al “Giorno”, il giornale dell’Eni, spiegò che di Mattei non si doveva più parlare. E qualche giornalista che non rispettò la “consegna” del silenzio venne accusato di fare solo dietrologia o, peggio, di alimentare un pericoloso “malcostume politico”.

I sostenitori della pista delle “Sette Sorelle” petrolifere, disconobbero intenzionalmente la mediazione dell’amministrazione Kennedy interessata a promuovere una strategia che puntasse sulla definitiva rivalutazione del ruolo di Mattei nella politica italiana ai fini di una svolta di centro-sinistra che recuperasse i socialisti nell’area governativa e isolasse definitivamente i comunisti. Dai documenti segreti del Dipartimento di Stato americano e dai rapporti riservati dell’ambasciatore Usa di Roma, 1961-1962, si evince, come già detto, la ferma determinazione di giungere a un’intesa con Mattei anche affidando ad alcune delle “Sette Sorelle” il compito di trattare gli aspetti tecnici e commerciali dell’intesa. La strategia prevedeva che per giungere a un accordo con il presidente dell’Eni si dovesse favorire la partecipazione italiana a vantaggiose operazioni petrolifere, quali quelle di beneficiare delle fonti e dei circuiti commerciali delle “Sette Sorelle” in Medio Oriente, in Africa e ovunque fosse possibile, al fine di creare alternative ai rifornimenti sovietici. Successivamente, una volta stabilita la collaborazione, Mattei sarebbe stato invitato negli Stati Uniti e avrebbe ricevuto tutti gli onori come segno del pieno riconoscimento politico americano.

Dai documenti segreti si evince, come già illustrato, che a Roma, nel maggio del 1962, Mattei incontrò l’inviato di Kennedy col quale si trovò d’accordo su tutti i punti del programma approvato dal Dipartimento di Stato. Nei giorni successivi, sempre a Roma, si passò alla negoziazione tra l’Eni e la Esso, di un contratto di approvvigionamento petrolifero di ampio respiro. Si trattò per Mattei di un eccellente affare che prevedeva, da parte della più importante delle “Sette Sorelle”, la cessione mediante contratto pluriennale di petrolio libico contro forniture di aziende del gruppo Eni. Di seguito, Eni ed Esso raggiunsero un’altra importante intesa che metteva finalmente fine al lungo contenzioso riguardante le importanti raffinerie di Bari e di Livorno. Concluso l’accordo commerciale e stabilita la collaborazione tanto auspicata dall’amministrazione Kennedy, restava da compiere la seconda fase della strategia del dipartimento di Stato, quella del viaggio di Mattei negli Stati Uniti per firmare l’accordo di Roma in un clima costruttivo e amichevole. Si parlò che avrebbe ricevuto una laurea ad honorem della Stanford University e che avrebbe incontrato il presidente Kennedy, per quel riconoscimento politico che avrebbe probabilmente segnato un nuovo corso del potere di Mattei nella scena politica italiana e in quella internazionale. Che i rapporti tra il presidente dell’Eni e gli Stati uniti fossero entrati in una fase di piena distensione e di fattiva collaborazione, fu provato nell’agosto del 1962 quando il Dipartimento di Stato invitò l’ambasciatore a Roma Reinhardt ad accertare eventuali responsabilità di Esso e Mobil, le più importanti compagnie americane in Italia, nella pubblicazione di cinque articoli che Indro Montanelli aveva diretto contro Mattei dalle pagine del “Corriere della Sera” nei giorni dal 3 al 17 luglio. La Esso e la Mobil si dichiararono del tutto estranee a quegli attacchi, tranquillizzando Reinhardt e, suo tramite, i responsabili del Dipartimento di Stato preoccupati che l’incidente potesse compromettere il clima amichevole instauratosi con il presidente dell’Eni.

La tragedia di Bascapé impedì a Mattei di recarsi negli Stati Uniti per ricevere quel riconoscimento politico, auspice l’amministrazione Kennedy, che avrebbe rappresentato la sua “apoteosi”, l’accettazione formale del suo ruolo e del peso dell’Eni anche nello scenario internazionale. Secondo il nipote di Mattei, Angelo, l’attentato avrebbe avuto luogo “per impedire l’accordo con Kennedy”, un successo che oltre a rappresentare una possibile via d’uscita ai problemi finanziari dell’ente, avrebbe reso Mattei ancora più potente, con buoni rapporti con gli Usa, senza rivali alla guida dell’Eni, un concorrente pericoloso se avesse voluto puntare alla presidenza della Repubblica, alla prossima scadenza del 1969.

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Va dunque sottolineato, che la morte di Mattei avvantaggiò, in Italia, tutti coloro che temevano, un rafforzamento del suo potere, al vertice dell’Eni, negli affari, nella gestione delle ingenti risorse economiche dell’ente e nella politica, nel perseguimento della strategia suggerita dagli Usa. Si avvantaggiò Amintore Fanfani, in rotta con Mattei per i motivi che diremo più avanti e, soprattutto per le sue attese politiche e di potere. Si avvantaggiò Eugenio Cefis che, uscito dall’Eni nel momento più critico per l’ente e mentre Mattei si accingeva a trattare con l’amministrazione Kennedy, vi potè ritornare soltanto a seguito della sua morte. A volerlo alla guida effettiva dell’Eni era stato proprio il presidente del consiglio Fanfani che lo considerava l’unico in grado di poterlo gestire da un punto di vista operativo e di sollevarne la preoccupante situazione finanziaria. Lo stesso Cefis, in una intervista rilasciata a metà degli anni novanta dirà: «L’Eni di Mattei pativa due condizioni negative: il peso degli investimenti sbagliati e il peso delle ragioni politiche. Egli non poteva sospendere unilateralmente la lotta contro le grandi compagnie straniere, né opporre continui rifiuti al potere politico… si era andata creando, una spirale perversa che non poteva durare all’infinito».

Una dichiarazione che sorprendentemente disconosceva le possibilità che si sarebbero aperte a Mattei a seguito dell’accordo con Kennedy e della svolta decisiva del ruolo Eni negli scenari internazionali. Dell’accordo erano a conoscenza i servizi segreti italiani, e Cefis, come scrisse Nico Perrone era «un fine uomo d’”intelligence”», cioè gestore di «operazioni coperte». Evidentemente non bastava affermare che Mattei si trovava in particolare difficoltà e rimaneva un avversario pericoloso per le grandi compagnie del petrolio per dimostrare che vi fosse un reale interesse a organizzare un attentato contro di lui; e, soprattutto, per dimostrare che questo attentato sia stato effettivamente organizzato. Ma se si presenta un Mattei sul punto di concludere la pace con le “Sette Sorelle” e alla vigilia di ricevere un riconoscimento politico dall’amministrazione Kennedy, veniva addirittura meno qualsiasi movente per un possibile attentato, quello realizzato il 27 ottobre 1962, a Bascapé.

Fanfani e Mattei, entrambi della corrente di base della sinistra storica della Democrazia Cristiana, furono fin dall’inizio compagni di strada nell’ambito di un progetto politico di grande vitalità e dinamismo che – nella seconda metà degli anni cinquanta – fu in grado di esprimere l’avvento del “miracolo economico”. Tuttavia, sebbene l’esistenza di questo rapporto avesse modo di rivelarsi nei fatti, non esistette un’alleanza stretta fra i due, né un’ispirazione univoca. Nel naturale sviluppo e nella sinergia del rapporto valsero le reciproche convenienze e una comune aspirazione individuale a rappresentare il leader egemone, anche a costo della strumentalizzazione dell’altro. Fanfani ambizioso e volitivo, nell’inseguire ostinatamente l’eredità politica di De Gasperi, non disdegnò di concentrare nelle sue mani le cariche di segretario della Dc, di presidente del consiglio e di ministro degli esteri, trasformando il governo in una sorta di cancellierato.

Per quanto a Mattei, il suo percorso dimostrò che le divisioni esistenti nel sistema italiano, e soprattutto all’interno dei partiti, avevano creato il terreno più favorevole per le sue personali ambizioni. Tutto ciò lo indusse a non puntare in modo definitivo su alcun politico e alcun gruppo, pregiudicandosi di conseguenza un sostegno più deciso e coerente da parte del suo partito e della sua stessa corrente. La lotta tra gruppi e tra equilibri di potere che caratterizzò la Dc post-degasperiana, non trovò ostacoli né da parte di Mattei né da parte di Fanfani che, al contrario ne furono i catalizzatori, pesando su entrambi una visione fortemente egocentrica del potere, con una accentuata diffidenza verso il prestigio e il potere degli altri. In questa situazione di divisioni e di instabilità il ruolo di Mattei assunse i connotati di un potere autonomo, sostenendo gruppi politici di volta in volta funzionali ad un determinato obiettivo, svolgendo una politica indipendente sia sul piano interno che internazionale, e tutto al riparo dal giudizio elettorale e dai congressi di partito; in pratica senza dovere affrontare le infinite mediazioni della politica.

La straordinaria concentrazione di potere nelle mani di Fanfani (nel luglio 1958 alla segreteria del partito e alla presidenza del consiglio si aggiunse il ministero degli esteri), unita al dinamismo del personaggio, favorì un ruolo decisamente ambiguo nei confronti di Mattei. Nell’intento di trovare una giustificazione e una conciliazione politica tra l’appartenenza italiana al sistema atlantico e le esigenze di penetrazione nel Medio Oriente e nel Mediterraneo, Fanfani utilizzò la risonanza delle operazioni dell’Eni in modo strumentale ai suoi disegni, dimostrando tuttavia una chiara e indiscutibile fedeltà agli Stati Uniti. Fu questo, il tentativo di far convivere le due anime della politica estera italiana, collocando sullo stesso piano la direttrice atlantica e quella arabo-mediterranea, al fine di potere ricavare da ciascuna i maggiori vantaggi personali.

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Nel suo libro “L’arma del petrolio”, Leonardo Maugeri tracciò così la sostanziale ambiguità della scelta fanfaniana: «La nuova posizione assunta da Fanfani, quindi, presentava più di un’insidia per la diplomazia parallela di Mattei. L’ingannevole facciata della comunanza di idee e di prospettive, che ha indotto molti a ritenere che il primo ministero Fanfani coincidesse con il massimo sviluppo dell’azione di Mattei, nascondeva infatti alcuni elementi di conflittualità troppo marcati perché il rapporto tra i due potesse avere un carattere sinergico. Fanfani avvertiva un forte disagio nel trattare con un uomo che non poteva controllare, e che probabilmente era in grado di spostare ingenti risorse economiche ed esercitare una forte influenza politica all’interno del suo stesso partito e di tutto lo schieramento parlamentare, dai comunisti ai missini. E tuttavia Mattei era uno dei simboli di un’Italia diversa, dinamica, moderna, che aveva riscoperto l’orgoglio nazionale indicando nuovi fronti di sviluppo per il paese. Un conflitto con Mattei avrebbe significato non solo lo scontro con un uomo d’immenso potere, ma anche con la forza dei simboli che egli incarnava. Per questi motivi Fanfani – nella sua lotta di potere – percepì Mattei più come un concorrente inviolabile che come un alleato».

L’ambiguità di Fanfani trovò ulteriore conferma quando nel luglio 1958, Mattei concluse un nuovo accordo petrolifero in Marocco, applicando la stessa formula adottata in Egitto e in Iran. Era il terzo successo di grande rilevanza politica per Mattei, cui farà seguito una molteplicità di concrete iniziative per realizzare, nei paesi arabi e africani, impianti di raffinazione e reti di distribuzione di prodotti petroliferi. Anche nel caso dell’accordo marocchino, seguendo il rituale già sperimentato in Iran fu organizzata una visita di Fanfani e dell’allora presidente della Repubblica a Rabat per la firma dell’accordo definitivo tra Eni ed il governo del Marocco. Mattei intendeva far parte della delegazione politica ufficiale che avrebbe dovuto incontrare re Maometto, ma fu proprio Fanfani a opporsi al suo inserimento. Egli intendeva confermare all’esterno, soprattutto agli Stati Uniti, l’immagine di “padrone” della politica estera italiana. E furono fonti a lui vicine a far sapere all’amministrazione Usa della risoluta opposizione del presidente del consiglio Fanfani a che Mattei prendesse parte alla delegazione.

Nel novembre del 1961, suscitando lo stupore della stessa ambasciata britannica, Fanfani chiese di incontrare il responsabile per l’Europa meridionale della Shell, Arnold Hofland. Nel corso dell’incontro spiegò che i motivi che lo avevano spinto a chiedere l’incontro erano dovuti al forte imbarazzo che le operazioni di Mattei stavano suscitando in ambito Nato, tra americani, francesi e altri. Disse che l’obiettivo che si proponeva di raggiungere con quell’incontro era quello di ottenere dai signori della Shell delle condizioni commerciali per Mattei tali da indurlo ad allentare i suoi rapporti con l’Unione Sovietica. Lo scopo di Fanfani era quello di isolare Mattei evidenziandone la pericolosità agli occhi degli alleati occidentali. Lo stesso scopo si coglie dalla lettura di un rapporto “confidenziale” del Dipartimento di Stato Usa, del 20 ottobre 1958, scaturito da un incontro avuto da Clemente Brigante Colonna, stretto collaboratore di Mattei con alcuni diplomatici americani ai quali disse tra l’altro: «Fanfani e i suoi seguaci sono spesso preoccupati dell’impulsività di Mattei e del suo modo poco ortodosso di condurre la politica. Essi non possono imporre dei limiti alla sua influenza ma sarebbero ben contenti se gli Stati Uniti volessero tentare un’opera di persuasione condotta da persone esterne».

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Come abbiamo detto Enrico Mattei finanziava i partiti, molte correnti, molti politici e quei soldi erano molto importanti. Una massa enorme di denaro, 300-400 miliardi di lire, che poteva fare la forza di un partito o d’un uomo politico. Una somma considerevole ch’egli distribuiva per “coprirsi le spalle” dagli attacchi dei suoi nemici e degli oppositori alla sua politica; per finanziare partiti, correnti o politici di cui serviva per ottenere appoggio incondizionato ai suoi ambiziosi programmi. A tal riguardo aveva coniato la cinica quanto realistica immagine del taxi che pagava finché se ne serviva, dal quale poi discendere alla fine della corsa. E ben si addiceva la similitudine a coloro ch’egli “scaricava” perché le loro idee non collimavano più con le sue; e si sa che Mattei aveva delle idee tutte sue sugli interessi italiani, sul ruolo del suo ente, sulla politica internazionale.

Sapeva che il metanodotto sottomarino da realizzare per trasportare ingenti quantità di gas naturale dall’Algeria al nostro paese e l’acquisto di gas e petrolio dall’Unione Sovietica, direttamente “via tubo”, avrebbero portato profondi cambiamenti nell’economia italiana e nella politica estera del paese. Un impatto economico considerevole e fortemente lesivo di interessi consolidati di gruppi o di lobby più o meno occulte, legato al conseguente decadimento dell’uso di metaniere o petroliere. Questa “rivoluzione” sebbene salvifica per gli interessi energetici nazionali, non sarebbe piaciuta ad Amintore Fanfani, leader di una delle correnti della Dc, generosamente finanziata da Mattei. Adduceva Fanfani motivi squisitamente politici connessi all’acquisto di petrolio dall’Unione Sovietica; acquisto che considerava controproducente e pericoloso ai fini dell’alleanza atlantica.

Il fratello di Mattei, Italo, interrogato dal giudice Fratantonio nell’ambito della inchiesta sul caso De Mauro, nel novembre 1971, riferì che il ministro Oronzo Reale aveva detto a sua figlia Rosangela che Fanfani, Cefis e Girotti avrebbero “fatto fuori suo fratello, tanto più che in quell’epoca era sul punto di firmare un contratto molto importante per gli interessi dell’Italia e riguardante lo sfruttamento del petrolio algerino”. Tenne poi a precisare d’esser convinto che i tre personaggi, “se non materialmente coinvolti nella morte del fratello, fossero per lo meno a conoscenza di quello che gli sarebbe poi accaduto”. A sostegno di tale convincimento, raccontò che poco prima della tragedia di Bascapè, Fanfani di ritorno dagli Stati Uniti convocò suo fratello e gli disse di non acquistare più petrolio dalla Russia. «In quella circostanza – spiegò al giudice Italo Mattei – mio fratello fu molto chiaro e disse a Fanfani che dal quel momento gli avrebbe tolto ogni appoggio politico, appoggio che avrebbe dato con tutta la sua forza all’onorevole Moro ritenendo costui uomo di maggior capacità e indipendenza».

La politica di Mattei nel Mediterraneo, tradizionalmente filoaraba, avrà con Moro una particolare accentuazione filopalestinese ed è possibile che questo abbia provocato irritazioni nei confronti del nostro Paese. L’atteggiamento dell’uomo politico italiano, che sarà vittima di un attacco terroristico, nascondeva un duplice obiettivo: da una parte, aprire nuovi spazi per l’espansione economica italiana e salvaguardare i nostri interessi nel Mediterraneo; dall’altra, tenere il più possibile l’Italia al riparto del terrorismo islamico. Dal lato opposto, però, quasi per una sorta di compensazione, il Servizio Segreto israeliano (Mossad) ha sempre avuto in Italia le mani libere e ha potuto regolare tutta una serie di conti. E’ dunque intuibile che l’atteggiamento italiano finì per consentire le due cose insieme: un atteggiamento morbido nei confronti del terrorismo palestinese e, allo stesso tempo, la possibilità del servizio israeliano di agire con grande libertà di azione. D’altra parte, le autorità italiane permisero al Mossad di avere una capacità e una legittimazione operativa sul nostro territorio diversa da tutti gli altri Servizi occidentali, perché era il Servizio di uno stato che viveva una permanente realtà di belligeranza.

Le dichiarazioni di Italo Mattei, che convinsero Mario Fratantonio e Ugo Saito a delineare delle ipotesi di responsabilità per l’omicidio di Enrico Mattei, contenevano elementi di forte “rottura”, di “sfida” aperta, di “guerra” a tutto campo nei confronti del leader Dc. In pratica, Mattei aveva deciso di spostare, quindi, i suoi ingenti finanziamenti alla corrente di Aldo Moro aumentandone in maniera decisiva il peso politico. Aveva fatto un atto di politica interna decidendo di appoggiare un uomo favorevole a una svolta di centrosinistra e più vicino alle sue idee riformiste. Aveva espresso un segnale inequivocabile di politica estera decidendo di appoggiare e di avvalersi dell’appoggio di un uomo che apertamente condivideva la sua politica mediterranea e filo-araba. E c’era, nella reazione di Mattei e negli atti relativi il segno tangibile di un programma politico che, a seguito del riconoscimento di Kennedy, avrebbe chiuso ogni spiraglio di rivalsa ai suoi nemici.

Tra questi c’era anche Eugenio Cefis, che faceva riferimento a Fanfani e alla sua corrente, che con Fanfani condivideva l’opposizione a Mattei e alla sua politica, che era ritornato ai vertici dell’Eni grazie a Fanfani e che una volta ritornato “affossò” l’accordo con l’Algeria e il relativo progetto di metanodotto, per i motivi che abbiamo già raccontato. Graziano Verzotto, allora presidente dell’Ente Minerario Siciliano, entrò in rotta di collisione con Cefis nel momento in cui carezzò l’idea di realizzare il metanodotto Algeria-Sicilia attraverso la Sonems. Ai giudici dirà che all’Eni (prima Cefis e poi Girotti) erano nettamente contrari al progetto, sicché per impedirne o quanto meno ritardarne la realizzazione, avevano ottenuto dal governo di partecipare alla Sonems. Intrighi, interessi privati, e pretestuosità di vario genere ritarderanno di quindici anni l’accordo tra l’Eni e l’Algeria e di almeno dieci anni la realizzazione del metanodotto sottomarino che porterà la preziosa energia, dalla costa africana in Sicilia e nel resto d’Italia.

Per il pubblico ministero Calia «l’esecuzione dell’attentato venne decisa e pianificata con largo anticipo, probabilmente quando fu certo che Enrico Mattei, nonostante gli aspri attacchi e le ripetute minacce, non avrebbe lasciato spontaneamente la presidenza dell’ente petrolifero di Stato. La programmazione e l’esecuzione dell’attentato furono complesse e comportarono – quanto meno a livello di collaborazione e di copertura – il coinvolgimento di uomini inseriti nello stesso ente petrolifero e negli organi di sicurezza dello Stato con responsabilità non di secondo piano».

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